REGGIO EMILIA – L’obiettivo degli operatori è arrivare prima. E’ arrivare in tempo. Non è semplice, perché chi affronta il percorso del Servizio Uomini Maltrattanti non è un bambino: ha tra i 35 e i 45 anni, un vissuto alle spalle, meccanismi profondi da scardinare; e soprattutto, quasi mai ha scelto autonomamente di accedere, ma viene inviato in seguito a guai giudiziari, dopo enormi sofferenze inferte alle compagne o ai figli; dai servizi sociali o dagli avvocati. Molti dei colloqui, ad esempio, che sono settimanali, avvengono in carcere.
“I volontari sono 1 su 10 circa, ma i numeri sono leggermente in aumento”, spiega Lara Bianchini, psicoterapeuta del servizio. Qualcosa, quindi, si sta muovendo. Come sono costantemente in crescita i numeri delle persone seguite dal servizio, che fa parte delle attività della cooperativa Papa Giovanni XXIII: 150 dal 2018, anno di debutto del servizio. Una cinquantina i percorsi attualmente attivi. I problemi psichiatrici o le dipendenze da alcool e droghe ovviamente esistono, ma la stragrande maggioranza di quello che gli operatori del Sum vedono è l’incapacità di gestire i “no” e la frustrazione del fallimento. “Non c’è un gene della violenza, non si tratta di raptus o impeto: la violenza è una scelta – aggiunge Bianchini – Noi dobbiamo ricostruire le storie delle persone per arrivare a comportamenti alternativi”.
Occorre la maggiore età per entrare nel percorso, ma i minorenni possono comunque accedere gratuitamente allo sportello psicologico dell’Ausl. La geolocalizzazione, le videochiamate di controllo, il “decido io come ti vesti e con chi esci”, iniziano ben prima dei 18 anni e le cronache degli ultimi giorni lo confermano. “Siamo in un’epoca di normalizzazione della violenza, ai bambini va insegnato il consenso: non lo so non è sì, il sì può diventare no; molte ragazzine dicono sì per paura”.
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