REGGIO EMILIA – Nel 1849 l’architetto Pietro Marchelli avviò la costruzione di un palazzo voluto da Giuseppe e Bonaiuto Carmi, due fratelli appartenenti a una ricca famiglia della borghesia ebraica della città, che dovettero superare un ostacolo difficile.
Stella Leprai, direttrice dell’Archivio di Stato reggiano: “All’epoca, gli ebrei non potevano acquistare edifici fuori dal ghetto. Il beneplacito del duca impose che d’ora in poi questo palazzo fosse considerato parte integrante del ghetto”. Il ghetto ebraico di Reggio, istituito nel Seicento in via dell’Aquila e strade adiacenti, abolito nel periodo napoleonico, fu ripristinato nel 1815 col ritorno del ducato, anche se senza più la chiusura notturna delle porte; fu poi abolito definitivamente con l’unità d’Italia. A fine Ottocento, i Carmi cedettero il palazzo. “Una parte viene venduta alla Provincia, ed è dove si trova la caserma dei carabinieri; altre due vengono vendute a questa famiglia Medici, che poi a loro volta nel 1929 vendono al partito nazionale fascista”, ha spiegato la Leprai.
Caduto il regime fascista, in Palazzo Carmi si insediarono il Partito Comunista e la Camera del Lavoro, che furono però sfrattati nel 1954. Nel 1965 la decisione di insediarvi l’Archivio di Stato, con l’abbandono per fortuna di un deprecabile progetto di abbattimento. “Viene messo da parte il progetto di abbattere il palazzo e si iniziano dei lavori necessari per rendere l’edificio adatto a custodire il patrimonio archivistico dell’istituto”.
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