BOLOGNA – Fogli davanti pieni di appunti per non perdere il filo, attacchi decisi alla credibilità dei pentiti che li accusano, ma anche alla Procura che non avrebbe cercato i relativi riscontri alle parole di Antonio Valerio e Salvatore Angelo Cortese, con persino un’infastidita allusione alle testimonianze processuali trascritte in diretta su Facebook, il che avrebbe permesso ai collaboratori di giustizia di aggiustare il tiro nelle loro successive deposizioni. Insomma, nell’appello bis sui due delitti di ‘ndrangheta del 1992 si assiste a quasi tre ore di intense dichiarazioni spontanee da parte di tre imputati su quattro (manca Antonio Ciampà, diserta sempre le udienze), con il boss Nicolino Grande Aracri che fa la parte del leone, con frasi colorite ma anche crude.
Rompe il ghiaccio in aula Antonio Lerose che, con una punta d’emozione, proclama subito la sua innocenza: “Non ho ucciso nessuno, non ho fatto nulla”, per poi rimarcare di trovarsi ormai da sette anni a doversi difendere da accuse infondate che collega ai due pentiti, definendo le loro parole contraddittorie e false su diversi dettagli relativamente al suo coinvolgimento nel delitto di Giuseppe Ruggiero a Brescello. Lavora come fornaio, non nasconde i sacrifici che fa e poi – rivolgendosi alla Corte – dice di essere a posto con la coscienza e spera che la sua innocenza venga riconosciuta.
Dal carcere di Cagliari, dove si trova al 41 bis, è collegato Angelo Greco. Per circa mezz’ora mette nel mirino soprattutto Cortese, infilando tutta una serie di vicende che a suo dire, documenti alla mano, smentiscono il pentito: “Per darsi credibilità si autoaccusa di fatti – sottolinea – che avrebbe vissuto, in realtà è una fonte inesauribile di bugie. Non è mai stato in stretta amicizia con me, le sue non sono sviste, è una precisa strategia nei miei confronti”.
Infine la lunga ed articolata replica di Grande Aracri, in video, dal carcere di Novara. E’ duro su Cortese che descrive come uno che aveva paura di essere ammazzato come un cane e per questo ha collaborato con la giustizia, evidenziando che non poteva essere il suo braccio destro, perché il pentito aveva partecipato all’uccisione di Salvatore Blasco che faceva parte della cosca Grande Aracri stessa. Indirettamente ammette l’esistenza del suo clan parlando anche di Valerio, che si è attribuito per la cosca – per Nicolino falsamente – investimenti da 500 milioni di euro, la gestione di bancali pieni di banconote coreane e pozzi di petrolio in Algeria. Per Nicolino tante cose non tornano nella ricostruzione – da parte di una donna – dei preparativi dell’omicidio di Brescello con il tranello dei finti carabinieri. E il boss annuncia il deposito di non pochi documenti e degli appunti su cui si è snodata la sua contrapposizione alle accuse.
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