REGGIO EMILIA – C’era chi non percorreva neanche più la via Emilia per non passare davanti alla Dg Service. Chi ha parlato agli inquirenti di ansia e agitazione, chi di paura e terrore, chi di depressione e pensieri suicidi. Dalle carte dell’operazione Ottovolante emergono storie di forte difficoltà economica, ma anche di consapevolezza: le vittime sapevano “che Di Tinco aveva delle risorse, è risaputo che le movimenta in modo non legale tramite emissioni di fatture per operazioni inesistenti”, ha raccontato una di loro. Tutte avevano, o avevavo avuto a che fare, con Giambattista Di Tinco per questioni lavorative, perché dipendenti di aziende o perché titolari di imprese individuali fornitrici o clienti della Dg Service di Calerno; e tutti, offrendo poche garanzie, avevano avuto difficoltà o rifiuti dopo aver chiesto accesso al credito bancario. Di Tinco offriva un servizio. Proprio così, “servizio”, lo definisce uno degli imprenditori finiti poi nella morsa degli interessi usurari, arrivati anche al 177%.
Di Tinco era già ai domiciliari in seguito all’inchiesta Minefield di un anno fa e ai suoi sviluppi dello scorso agosto; se in quell’indagine su un maxi giro di false fatture non era tra i principali indagati, in quest’ultima operazione di procura e Guardia di finanza appare senza ombra di dubbio come la mente di tutto. Tanto che, emerge dall’ordinanza, si sarebbe servito di altri per il lavoro “sporco”, come le minacce esplicite, le intrusioni nelle abitazioni delle vittime di usura, le percosse. In qualche caso come garanzia chiedeva l’emissione di un assegno senza intestazione: una sorta di pressione psicologica a pagare gli interessi con puntualità, perchè l’incasso avrebbe comportato problemi ancora maggiori con le banche per le vittime di usura.
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