REGGIO EMILIA – Secondo il procuratore capo di Reggio Calogero Gaetano Paci, quanto emerso con l’ultima costola dell’inchiesta Minefield altro non è se non “un modo delle organizzazioni criminali per trarre profitti illeciti”. Nel caso dell’indagine che ha riportato in carcere Giambattista Di Tinco, titolare della DG Service di Calerno, il modo era l’usura, spesso accompagnata da minacce. Anche se Di Tinco, videcollegatosi dal carcere della sua Taranto con l’aula del gip di Reggio, ha detto, rilasciando spontanee dichiarazioni, di “non aver mai minacciato nessuno”.
Di Tinco, finito dietro le sbarre un anno fa perchè coinvolto in un maxi-giro di fatturazioni per operazioni inesistenti, ha continuato a comunicare con l’esterno. Dal carcere l’imprenditore si videocollegava con l’ex moglie per sapere se una delle vittime di usura stesse pagando. Anche la donna, Filomena Arabia, indagata per ripetuti atti di favoreggiamento, è stata destinataria di una misura cautelare nell’ambito di quest’ultima inchiesta: ha il divieto di dimora in Emilia-Romagna. Gli inquirenti hanno chiesto e ottenuto la misura perchè ritengono che “possa sfruttare i contatti con parenti e conoscenti afferenti ad un ambito generale di sottocultura criminale per intimorire nuovamente le vittime”.
Calabrese, 41 anni, Filomena Arabia è nipote del Salvatore Arabia ucciso a Steccato di Cutro nel 2003. Quest’ultimo era considerato il luogotenente del boss Antonio Dragone, era in atto quella guerra di ‘ndrangheta per il controllo del territorio che portò poi Nicolino Grande Aracri alla guida della cosca. Una decina di anni prima invece, nel ’92, fu nel capannone di Franceso Di Tinco, il padre di Giambattista, che gli assassini di Giuseppe Ruggiero prepararono la falsa auto dei carabinieri utilizzata per andare a Brescello a compiere il delitto. Sia Francesco sia Giambattista furono sentiti come testi nel processo Aemilia ’92.
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