REGGIO EMILIA – Ethel Carri, avvocata, impegnata ormai da trent’ anni nell’affiancare donne che subiscono violenza domestica. C’è stato nella tua storia personale e professionale un fatto, una circostanza che ti ha reso determinata in questa direzione professionale?
Più che un fatto specifico, un percorso personale e politico, che mi ha consentito di avvicinare, con rispetto e cercando di dominare una forte reazione istintiva, tante situazioni anche di persone vicine. Perché è sempre bene ricordare che la violenza sulle donne è un fenomeno così trasversale, sia sul piano sociale che sul piano generazionale, da scuotere in profondità tante aspettative e convinzioni anche rispetto ad ambienti consueti e vicini. La diffusione di una cultura del possesso, in primis del corpo della donna, è così profonda e sottile da rappresentare il più serio ostacolo ad avanzamenti reali nelle relazioni, nei luoghi sociali, nelle aule dei tribunali. In questo percorso si situano certamente momenti particolarmente significativi, che hanno confermato e rafforzato le mie scelte: l’abitudine a lavorare in rete, con associazioni anche diverse: incontrarci e ragionare insieme tra donne provenienti dai più vari percorsi è sempre stato stimolante e produttivo; una esperienza recente e significativa come quella del “Tavolo interistituzionale” di contrasto alla violenza contro le donne di Reggio Emilia, con la partecipazione di Nondasola, che gestisce il centro antiviolenza e casa delle donne, congiuntamente a rappresentanze delle pubbliche istituzioni, delle forze dell’ordine, delle procure, dei tribunali, come pure delle aziende sanitarie e ospedaliere e dei Servizi Sociali; infine la costituzione, sul piano nazionale di una nuova “associazione delle associazioni”, D.i.Re. Donne in Rete contro la violenza, che raccoglie al suo interno oltre 80 associazioni di donne che in tutta Italia gestiscono Centri Antiviolenza e Case delle donne. Ho citato solo tre momenti di un lavoro che non potrà mai configurarsi come di normale amministrazione, poiché chiamati in causa sono bisogni vissuti e disattesi, orientamenti culturali ancora impregnati di ipocrisia, domande e risposte inesplorate contro un senso comune mediatico, che tende ad offrire immagini caricaturali delle relazioni tra uomini e donne. E tutte le volte che ci troviamo, io come altre mie colleghe, ad affrontare situazioni concrete, spesso difficili, dolorose, non di rado drammatiche, sentiamo di essere parte di qualcosa di più grande di noi stesse. Il grande tema del patriarcato, della sua persistenza e della sua crisi, in ogni parte del mondo, pesa in qualche modo su di noi, insieme alla sfida davvero fondamentale, che riguarda le “fondamenta” di ogni edificio comunitario e civile: il rapporto tra uomini e donne, come tra generi differenti.
Eri molto giovane quando ti sei impegnata come amministratrice pubblica della nostra città. Arriva prima la militanza politica e poi quella nel movimento delle donne, o c’è stata una assoluta sovrapposizione?
Ho incontrato la militanza politica, sull’onda dei movimenti studenteschi e giovanili, molto presto. Già a quindici anni, nel 1970, mi sono iscritta alla Federazione giovanile comunista, che a Reggio era molto attiva nelle scuole. Prima ancora di un impegno più diretto nel Pci, è stata molto importante nella mia formazione l’attività di animatrice per diversi anni nel “mitico” campeggio della Federcoop in Val d’Aosta, vera palestra formativa di una parte significativa della classe dirigente reggiana, in compagnia di tante amiche, come “Carlina” Rinaldi, la nostra vera guida. Anche l’attività sportiva giovanile in una squadra di pallavolo, nonostante la mia statura non proprio ideale, mi ha non poco aiutato a coltivare ideali di rispetto nelle relazioni tra le persone, specialmente tra donne. L’incontro con i movimenti femminili e femministi ha rappresentato quasi un fisiologico approdo, anche in virtù di rapporti con donne di grande valore, che hanno prodotto, non senza resistenze, effettivi avanzamenti nel Pci reggiano, un partito a forte impronta maschile nei suoi gruppi dirigenti. L’esperienza di amministratrice pubblica arriva quasi all’improvviso: nel 1975 entro in Consiglio Comunale a Reggio Emilia. Io e Letizia Valli eravamo le prime neoconsigliere ad essere elette al di sotto dei ventun anni, in applicazione della legge, approvata il 7 marzo dello stesso anno, sulla maggiore età a diciotto anni. Dal 1977 al 1980, nonostante le mie esitazioni, per la mia limitata esperienza, vengo spinta ad entrare in giunta con la delega allo Sport e alle politiche giovanili. Dopo aver compiuto la scelta della laurea in Giurisprudenza e aver iniziato la mia esperienza di avvocata, sarò in Consiglio provinciale dal 1985 al 1990, ma soprattutto ritorno in Consiglio comunale nel 1990 e presiedo la Commissione che porterà alla approvazione in Consiglio Comunale, nel 1995, del Progetto di un Centro antiviolenza/Casa delle donne, che si concretizzerà nell’estate del 1997, in stretta collaborazione con l’Associazione Nondasola, di cui sono stata socia fondatrice. Vissi quegli anni con la consapevolezza che tanti sforzi delle lotte delle donne avevano consentito di raggiungere un importante risultato. Ma era solo l’inizio. Come vedi nella mia esperienza la militanza politica precede la scelta professionale e in qualche modo la condiziona e la orienta. La presenza nella amministrazione pubblica mi ha aiutato a calarmi più direttamente nella realtà delle condizioni materiali delle persone, l’approdo al femminismo, infine, mi ha aperto nuovi orizzonti di pensiero. I percorsi si sono molto intrecciati e la professione penso ne abbia risentito positivamente. Mi sono sempre sentita una avvocata “militante”, rispettosa della legge, ma impegnata a migliorarla, nella sua lettura e interpretazione, e al contempo a favorirne significativi avanzamenti. Tutto ciò vale per il diritto del lavoro, oggi sottoposto a gravi arretramenti nella condizione reale dei lavoratori, ma tanto più per la legislazione relativa alla vita delle donne e ai loro diritti.
Nel 1997 nasce a Reggio Emilia il Centro Antiviolenza, gestito dall’Associazione Nondasola, di cui tuttora sei una socia fondamentale; da allora ad oggi vedi dei cambiamenti nella presa di coscienza rispetto alla violenza di genere come fenomeno endemico di una società che non ha ancora chiuso i conti con il patriarcato?
Se penso alla fatica di allora per spostare tutti i gruppi su un versante di maggiore sensibilità alle tematiche proposte dai movimenti femminili e femministi, il solo fatto di concepire un Centro di donne per le donne, secondo la nostra specifica impostazione, quella di Nondasola, e il realizzarlo, mi sento di dire abbia rappresentato un passo in un certo senso rivoluzionario anche nella nostra città. Da allora, non sarebbe giusto ignorare i grandi passi in avanti compiuti, anche solo dando uno sguardo alla mole di attività svolta in questi venticinque anni. Tuttavia, devo dirti che la mia impressione è ancora improntata ad una certa preoccupazione. Ad ogni passo in avanti corrispondono seri arretramenti. E il prezzo che stanno pagando le donne, anche qui da noi, è davvero troppo alto, inaccettabile. Non mi riferisco solo ai fatti di cronaca più eclatanti e drammatici, ma anche ad un sentire diffuso, che, specialmente dopo i due anni della pandemia, ha portato ad un aggravamento delle situazioni relazionali, rendendo il nostro lavoro sempre più difficile.
Parliamo ora del sistema giustizia e della sua adeguatezza rispetto alla repressione della violenza maschile nei confronti delle donne. In una indagine condotta da Di.Re, che ti ha visto dare il tuo personale contributo, il focus era verificare l’applicazione dell’art 31 della Convenzione di Istanbul relativo a “custodia dei figli , diritto di visita e sicurezza” che impone la “ necessità di considerare la violenza ( e la sicurezza della madre) nella determinazione e regolamentazione di tali diritti, il divieto di meccanismi obbligatori di mediazione, la necessità di strumenti di valutazione del rischio, la protezione della vittima”. A quanto pare, in merito, i dati derivanti dall’esperienza delle avvocate dei Centri non sono affatto confortanti. Qual è il tuo punto di vista?
La tua domanda contiene già molti elementi di risposta. Non mancano le norme, non mancano i documenti internazionali, non mancano le ricerche e le documentazioni. Manca una reale volontà, a molti livelli, di passare ad una effettiva fase applicativa, mancano scandalosamente risorse, manca uno slancio collettivo di svolta culturale. Ti faccio solo alcuni esempi: gli strumenti giudiziari non mancano, ma faticano ad essere attuati. L’applicazione in concreto delle leggi è rallentata o addirittura impedita da pregiudizi e stereotipi discriminatori nei confronti delle donne. Operatori/trici del diritto, del sociale, della sanità e delle forze dell’ordine, mettono ancora costantemente in questione la credibilità delle donne. Per non parlare del linguaggio, che spesso “esprime rapporti di potere, li riproduce e li conferma …e volge tutto al maschile, anche ciò che appartiene al genere femminile”. Alcune parole chiave necessarie a fronteggiare le criticità segnalate: formazione, piena applicazione, efficacia dei controlli, valutazione attenta del rischio, finanziamenti certi ai centri antiviolenza. Come si configura la strada delle donne che hanno deciso con coraggio di intraprendere il percorso di uscita dalla violenza? La possiamo definire una vera corsa ad ostacoli con una giustizia che non è né prossima né amica. Nel percorso giudiziario spesso le donne che hanno dovuto subire di tutto, fino al rischio della loro stessa vita, diventano vittime una seconda volta, a causa principalmente di procedure e approcci ben lontani dalla ratio delle stesse normative esistenti, depotenziate di fatto, non di rado, dal prevalere di stereotipi e pregiudizi ancora assai lontani dal tramontare. È questo il fenomeno che va sotto il nome di “vittimizzazione secondaria”.
Sulla base della tua esperienza per quale motivo troppo spesso giudici, consulenti tecnici d’ufficio e assistenti sociali ritengono essere un normale conflitto di coppia quello che è in realtà una situazione di violenza?
Non a caso ho prima parlato di procedure e approcci nei giudizi civili. Come riassumere le criticità: nella grande maggioranza dei casi non si riconosce o si minimizza la violenza subita, rappresentata come “lite in famiglia”; si mette in dubbio la credibilità delle donne; si sottovaluta l’impatto della violenza assistita da figli e figlie, imponendo forzatamente forme di bigenitorialità che consentono agli uomini maltrattanti di reiterare comportamenti abusanti, senza efficaci misure deterrenti, come dimostrano le cronache quotidiane, si pone la donna sullo stesso piano dell’uomo che agisce violenza; si sottopongono le donne a consulenze tecniche di ufficio ove vengono accusate di essere madri ostative o alienanti, consulenze che acriticamente vengono assunte dai magistrati in molti loro provvedimenti, fino ad arrivare a decisioni di separazione forzata di bambini e bambine dalle madri stesse per permettere una rieducazione alla relazione con il padre maltrattante che rifiutano. Chiamiamo tutto questo “vittimizzazione secondaria”. Le donne doppiamente vittime e abbiamo deciso di non stare solo a guardare, di non lasciare le donne sole, di intervenire perché tutto ciò cessi, con uno strumento nuovo: un Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria. Parliamo di una vera rivoluzione culturale. Intanto basterebbe applicare pienamente le disposizioni e i principi della Convenzione di Istanbul e fondamentale è una formazione specifica costante a tutti i livelli, per tutte le figure istituzionali del sistema giustizia, una formazione che non può che essere gestita con il prioritario contributo delle esperte dei centri antiviolenza, che da anni operano sul campo.
Essere una avvocata del Centro Antiviolenza ed essere una femminista hai l’impressione che abbia in qualche modo comportato una stigmatizzazione da parte di colleghi e magistrati?
Sinceramente, in un primo tempo questa impressione l’ho chiaramente percepita. Non ti nascondo che diffidenze e pregiudizi ogni tanto fanno la loro comparsa nei confronti delle avvocate femministe e che sono più esposte nella militanza sociale e culturale. Ma ci abbiamo fatto “il callo” e quel che conta, per quanto mi riguarda, nel confronto con colleghi/colleghe, magistrati/magistrate, operatori/operatrici sociali, è l’autorevolezza che penso e spero di essermi conquistata nel mio lungo percorso professionale.
È di questi giorni l’appello, redatto e firmato da molte intellettuali e donne impegnate nel campo della rivendicazione dell’eguaglianza sostanziale delle donne in ogni campo della vita economica e sociale, finalizzato a che la scelta del parlamento, nel momento della designazione e poi del voto del futuro Presidente della Repubblica, ricada su una donna. Ti convince questa iniziativa?
Trovo l’iniziativa apprezzabile nelle sue motivazioni di fondo, ma temo si tratti di un atto di mero valore simbolico che, purtroppo, rischia di essere percepito e valutato in modo superficiale e un po’ demagogico. Il tema che evoca è comunque molto importante e non va sottovalutato.
Tuttavia, bisognerebbe partire da radicali “battaglie” sulle condizioni sociali e economiche delle donne, ancora in questi mesi le vittime prime delle conseguenze pesanti della pandemia.
Così come da un radicale impegno per una rappresentanza capace di raccogliere istanze e visioni del mondo che le donne impegnate nei movimenti femministi stanno già da diverso tempo prospettando, senza avere ascolto.
Natalia Maramotti
Chi è Etelina Carri
Etelina Carri è avvocata, socia fondatrice dell’Associazione Nondasola, Componente del Gruppo Avvocate di D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, Componente di Lab5 – Laboratorio 5 – Per un pensiero critico del diritto di famiglia.
Consigliera in Comune a Reggio Emilia dal 1975 al 1977, quando assume la carica di assessora sino al 1980. Consigliera provinciale dal 1985 al 1990 e di nuovo Consigliera in Comune a Reggio Emilia dal 1990 al 1995.
Avvocata civilista, iscritta all’Albo dal 1986. Si occupa prevalentemente di diritto del lavoro e diritto di famiglia.
Curatrice con le avvocate Daniela Abram, Barbara Carattoni, Wanna Del Buono, Manuela Ulivi (Lab5) del volume “Diritto di famiglia – I cambiamenti sociali, la cultura giuridica a trent’anni dalla Riforma- Il pensiero delle donne, i cambiamenti sociali, la cultura giuridica”, Aliberti editore, 2006.
Coautrice del saggio “Uscire dalla violenza: gli esiti dell’applicazione di un nuovo istituto giuridico, l’ordine di allontanamento nelle città di Reggio Emilia, Parma e Ferrara” nel volume “Scegliere la libertà: affrontare la violenza. Indagini ed esperienze dei Centri Antiviolenza in Emilia-Romagna” a cura di Giuditta Creazzo, Franco Angeli, 2008.
Ha contribuito alla pubblicazione “Dal silenzio alla parola. La violenza sofferta e il desiderio di fermarla” curata da Nondasola ed edita da Franco Angeli nel 2012.
Coautrice del libro “Femminicidio. L’antico volto del dominio maschile” edito da Vittoria Maselli nel 2013.