REGGIO EMILIA – Giovedì scorso il giudice Andrea Rat ha condiviso con TG Reggio e con i cittadini che affollavano la Sala del Palazzo Ducale di Guastalla un allarme che non deve essere lasciato cadere nel vuoto. “Il silenzio che è calato dopo il processo Aemilia mi preoccupa moltissimo – ha detto il giudice Rat ai nostri microfoni – Molti pensano che il fenomeno ‘ndranghetistico sia finito. Invece in questo silenzio la ‘ndrangheta continua a operare e si è unita alla società civile”.
Il 24 settembre scorso, intervenendo a un convegno promosso dalla Cassa Edile, il prefetto Maria Rita Cocciufa aveva sottolineato che le indagini e i processi hanno messo in luce che le cosche non disdegnano le estorsioni e l’usura, ma c’è un ma: “La pentola è stata scoperchiata. Però una cosa la devo dire: quello che manca sono le denunce. Denunce non ce ne sono: né per estorsione, né per usura”.
Il prefetto non parla per sentito dire. E neppure Andrea Rat parla a caso. E’ il giudice che ha scritto le motivazioni della sentenza di primo grado del processo Aemilia. Non è un magistrato che insegue le luci della ribalta: se si dice preoccupato per il silenzio che è calato sulla ‘ndrangheta, le forze politiche e sociali del territorio, le associazioni economiche e gli ordini professionali farebbero bene a interrogarsi sulle sue parole.
Il silenzio di cui parla Rat è lo stesso silenzio che seguì la messa in onda su Rai Due, il 23 maggio scorso, del docufilm “Aemilia 220. La mafia sulle rive del Po”, che ricostruisce le tappe del radicamento ‘ndranghetistico, gli affari, le sottovalutazioni e le complicità. Ed è un gesto denso di significato il fatto che venerdì scorso, alla proiezione del documentario alla Camera del lavoro di Reggio, abbiano partecipato Cristina Beretti, Francesco Maria Caruso e lo stesso Rat: il collegio giudicante del processo Aemila al completo.
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