REGGIO EMILIA – Il nostro itinerario parte da lontano, da otto secoli addietro, quando nel 1217 fu costruito, distante dalle mura della città, un lazzaretto. La lebbra era allora un flagello, come le epidemie di peste, che a più riprese hanno fatto strage della popolazione. L’ospitale di San Lazzaro è stato affidato alla carità di privati o di opere pie finché nel 1821 il Duca Francesco IV d’Austria-Este decise di trasformare l’ospizio di mendicità in un moderno ospedale psichiatrico e lo fece diventare la “Casa dei pazzi” di tutto il territorio del suo ducato. Chiamò a dirigerlo Antonio Galloni, un giovane medico di soli 27 anni, che si ispirava alle teorie del francese Philippe Pinel. Pinel già a fine Settecento aveva fatto emergere la malattia mentale dal clima di superstizione e mistero da cui era avvolta. Fino ad allora i pazzi erano considerati degli indemoniati e venivano tenuti alla catena. Galloni cominciò ad eliminare quei ceppi, ma la strada da percorrere era ancora lunga.
Oggi c’è chi viene a Reggio in visita al Museo di storia della psichiatria o all’enorme area verde che ospita fabbricati di pregevoli architetture. Una ventina di padiglioni, un parco di 35 ettari con una dotazione di piante di grandi dimensioni: il San Lazzaro, un tempo manicomio, cittadella di pazienti isolati dalla città da un muro che copriva tutto il suo perimetro, è diventato una risorsa per l’intera comunità. L’area è utilizzata dall’Azienda sanitaria Locale, dall’Università di Modena e Reggio, che vi ha collocato le facoltà di Agraria, Ingegneria e Medicina infermieristica, e dal Comune di Reggio. Iniziamo un viaggio alla riscoperta di questa istituzione, luogo di segregazione e di sofferenza quando la società vedeva nel malato psichiatrico soprattutto un soggetto pericoloso da isolare o una vergogna da nascondere.
Gian Piero Del Monte