REGGIO EMILIA – La conclusione del processo di primo grado sugli appalti del Comune di Reggio permette di tirare le somme – almeno per il momento – su una vicenda che, a partire dalla perquisizione in Municipio del 2019, ha pesato sulla vita politica della città per 5 anni e ha influito su diversi destini personali.
Non siamo di quelli che pensano che se un processo finisce con l’assoluzione, allora significa che l’indagine non aveva ragione d’essere e che indagati e imputati sono stati ingiustamente perseguitati. Fin dall’inizio però questa indagine della Procura ci è parsa fondata su basi fragili.
Come si fa a sostenere, come ha fatto ripetutamente l’accusa, che c’era un sistema, che cucire le gare su misura per il vincitore predestinato era la prassi, se poi i bandi contestati erano cinque, quattro dei quali di importo trascurabile, a fronte delle centinaia di gare bandite dal Comune e dalle società partecipate in quegli anni? E se l’obiettivo dei sotterfugi era far vincere tizio o caio, perché gli artefici delle gare addomesticate non ci guadagnavano niente?
L’indagine e il processo hanno portato alla luce alcuni comportamenti a dir poco disinvolti. Ma la sentenza dice che Reggio non è Appaltopoli e che in Comune non si truccano le gare d’appalto. Perfino l’unico episodio di turbativa d’asta per il quale è stata emessa sentenza di condanna è poi sfociato in un bando regolare.
Per 5 anni l’indagine è stata usata politicamente dall’opposizione di centrodestra per dire che in Comune si truccavano gli appalti per far vincere gli amici degli amici. È stata anche usata per accusare l’allora procuratore capo Marco Mescolini di tenere la mordacchia alle sue sostituite che indagavano sulla sinistra e poi per chiederne l’allontanamento da Reggio e dall’Emilia-Romagna. Mescolini che nel 2018, al suo arrivo in città, aveva sollecitato le colleghe a riprendere in mano l’indagine, ma aveva anche suggerito cautela nella valutazione degli elementi di prova. Aspettiamo le motivazioni della sentenza e capiremo di più.
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