REGGIO EMILIA – “Dobbiamo stare più attenti al silenzio che al rumore”, ha detto il giudice Andrea Rat sul finire della serata, molto partecipata, organizzata dal movimento Agende Rosse al centro sociale Orologio.
Un monito che inquieta se espresso dal magistrato che, assieme a Francesco Maria Caruso e Cristina Beretti, ha composto la corte che ha scritto una sentenza che è già storia. “Rendere giustizia non vuol dire né condannare né assolvere – ha detto Rat – vuol dire capire e decidere e talvolta, come in questo caso, è molto doloroso”. E’ stato doloroso, per il magistrato, rendersi conto della rete ricostruita dalla maxi inchiesta Aemilia. Il 28 gennaio 2015, il giorno degli arresti, Rat, nonostante la giovane età, aveva già accumulato esperienza e conoscenza in materia tra l’inchiesta Edilpiovra e il ruolo di giudice delegato all’amministrazione dei beni sequestrati, aveva già aperto gli occhi, eppure “credetemi, quella notte quegli occhi già aperti non ci potevano credere”.
Andrea Rat è stato intervistato dal giornalista Paolo Bonacini, ex direttore di Telereggio e autore del libro “Le cento storie di Aemilia”. In quei quattro volumi che compongono la sentenza di primo grado del maxi processo c’è la storia della città. “Quel provvedimento è per tutti – ha detto Rat – Noi siamo strumento nelle vostre mani, agiamo nel nome del popolo italiano”. C’è la storia dell’espansione della cosca dalla casa madre all’autonomia emiliana nel nome di un marchio. “Solo per la risoluzione dei conflitti si andava in Calabria dal capo dei capi; ma Nicolino Grande Aracri era ben consapevole del valore della terra reggiana: io vi faccio usare il mio nome ma voi mi fate fare i soldi”.
In quella storia, i coprotagonisti sono stati tanti: i reggiani che hanno offerto sponda, quelli che non hanno parlato, e anche alcuni esponenti della forze dell’ordine. Persone indagate e condannate, ma anche persone mai coinvolte nell’indagine. La testimonianza resa in aula, nel luglio 2017, dall’ex questore di Reggio Gennaro Gallo, quella sequenza di “no” e “non so” era stata definita dal presidente Caruso “una totale ignoranza del fenomeno mafioso”. “C’è stata omertà? Sì. Persone in divisa non hanno fatto il loro dovere”, ha concluso Rat.
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