REGGIO EMILIA – Le sue dichiarazioni, così come quelle di altri collaboratori di giustizia, sono state preziose nel processo contro la ‘ndrangheta Aemilia e anche nel filone Aemilia ’92, giunto alla fine del secondo grado di giudizio e che mira a fare piena luce sugli omicidi Vasapollo e Ruggiero di quasi 30 anni fa di cui per altro lui si è autoaccusato. Ora Angelo Salvatore Cortese torna a parlare. Lo fa nel processo Grimilde, in cui al centro ci sono sì sempre gli affari della cosca Grande Aracri, ma con preciso riferimento ai presunti fili tenuti dal fratello e dai nipoti del boss Nicolino a Brescello: Franceso Grande Aracri e il figlio Paolo sono i principali imputati del dibattimento iniziato un anno e due mesi fa, mentre il figlio maggiore Salvatore è stato condannato a 20 anni nel primo grado del rito abbreviato.
Chiamato come teste da Beatrice Ronchi della Dda, Cortese, uomo di fiducia prima di Antonio Dragone e poi, dopo il colpo di mano, di Nicolino Grande Aracri, ha ribadito di essere arrivato in territorio reggiano “non per mangiare prosciutto e parmigiano – ha detto – ma per i soldi, e qui ho trovato l’eldorado”. Soldi che la ‘ndrangheta ha sempre fatto a palate, ha detto ancora Cortese, ma che investire non era semplice: Francesco, ha continuato il pentito, aveva questa capacità. Nell’impianto accusatorio di Grimilde si parla di una miriade di attività: dalla gestione di pizzerie ad appalti europei.
L’inizio dei rapporti tra Cortese e Francesco Grande Aracri risale alla fine degli anni ’80 e il collaboratore di giustizia ha definito il fratello del boss come, lo riporta l’Agenzia di stampa Dire, “colui che tirava i fili: era la mente che gestiva e organizzava tutto, ma lo faceva in penombra. A Brescello Francesco e i suoi figli comandavano come noi comandavamo a Cutro e in più riuscivano anche a investire. Una volta Nicolino – ha detto ancora in aula Cortese – mi disse che poteva stare anche 20 anni in galera, perché tanto tutti i suoi soldi erano gestiti dal fratello”.
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