BOLOGNA – Il vecchio e il nuovo, la dipendenza dalla cosca madre Grande Aracri di Cutro e allo stesso tempo l’autonomia di movimento e di decisione che negli ultimi anni aveva raggiunto il culmine.
L’elemento dirompente che si evince dall’inchiesta Aemilia, per la corte d’Appello di Bologna, è stato il “salto di qualità” compiuto dalla ‘ndrangheta emiliana. Che la criminalità organizzata calabrese fosse – anzi, sia – presente in Emilia Romagna e a Reggio Emilia in particolare lo si era già dimostrato con svariate indagini e processi nel corso degli anni. Ma Aemilia, oltre che la straordinarietà del numero dei coinvolti, ha fatto emergere l’esplosione della capacità di infiltrazione degli affiliati alla cosca nel tessuto economico-imprenditoriale.
Lo dicono i giudici Alberto Pederiali, Maurizio Passarini e Giuditta Silvestrini che lo scorso 17 dicembre, condannando a quasi 700 anni i 118 imputati che avevano fatto ricorso contro la sentenza di primo grado di Reggio Emilia datata 31 ottobre 2018, avevano sostanzialmente accolto le richieste della procura generale rappresentata da Lucia Musti, Luciana Cicerchia e Valter Giovannini, confermando di fatto le decisioni della corte reggiana e l’impianto accusatorio messo in piedi da Marco Mescolini e Beatrice Ronchi.
Le motivazioni di quella decisione di sei mesi fa, raccolte in più di 2.500 pagine, dicono che la cosca emiliana costituitasi dagli anni ’80 nel tempo ha sostituito “un modello accentratore, in cui la carica intimidatoria insisteva sulla figura del capo, con una struttura che prevedeva un’organizzazione maggiormente articolata grazie alla presenza di luogotenenti in grado di ripetere, diffondere, moltiplicare la capacità di intimidazione” e, allo stesso tempo, “di frazionare il potere tra più soggetti, in modo da renderli meno pericolosi per l’egemonia instaurata, e maggiormente capaci di operare e di infiltrarsi sul territorio”.
La Corte d’Appello parla delle “numerose azioni incendiarie come modalità intimidatoria abituale della organizzazione, volte a rendere arrendevoli e accondiscendenti gli imprenditori”, di condotte vessatorie che si avvalevano “della condizione di assoggettamento e di omertà connessa all’ormai diffusa conoscenza della natura e della forza del sodalizio” esistente nel territorio reggiano. Il sistema tradizionale “militare” e quello moderno “imprenditoriale”, dicono ancora i giudici, alimentavano assieme “una spirale potenzialmente senza fine”.
Reggio Emilia 'ndrangheta a reggio emilia maxi processo aemilia 'ndrangheta in emilia processo appello aemilia condanne appello aemilia