REGGIO EMILIA – L’ultima parola spetterà alla Cassazione, che già aveva messo un punto fermo nell’ottobre 2018, con la sentenza di terzo grado del filone abbreviato scelto dai “capi”. La Corte Suprema aveva detto e scritto: è tutto vero, da 30 anni in Emilia e nel reggiano soprattutto la ‘ndrangheta opera, fa affari, trova sponda, estorce denaro, inquina l’economia sana. L’ultima parola, dicevamo, come legge prevede, anche stavolta l’avrà Roma. E le motivazioni di quello che è stato letto in sintesi nell’aula bunker della Dozza le leggeremo. Ma è indubbio che anche per la Corte d’Appello, così com’era stato per la corte reggiana del primo grado, sia esistita sul territorio – gli inquirenti che continuano a indagare parlerebbero al presente e direbbero che esiste – una ramificazione della cosca Grande Aracri dipendente e allo stesso tempo autonoma. E’ stata confermata l’esistenza dell’associazione, del fatto cioè che un gruppo di persone abbia agito assieme legate e spinte dal vincolo ‘ndranghetistico e per favorire l’associazione stessa. Due le accuse di associazione mafiosa cadute, quelle nei confronti di Francesco Lomonaco e di Gabriele Valerioti.
Lo sconto di pena complessivamente c’è assolutamente stato: i 1.223 anni di condanna comminati in primo grado sono scesi a 700 circa, anche se allora gli imputati erano stati 148 con 25 assoluzioni e in questo caso gli imputati erano 118 con 29 assoluzioni. Stavolta è intervenuto il cumulo della pena per gli imputati per i quali sono stati riuniti in un unico filone le accuse in ordinario e abbreviato. Ma in sintesi l’impianto accusatorio costruito in dieci anni dai pm Marco Mescolini e Beatrice Ronchi ha retto.
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