REGGIO EMILIA – Nel dibattito pubblico ci si interroga a volte su cosa ci abbiano insegnato il processo Aemilia e le inchieste sulla criminalità organizzata nel nostro territorio. La risposta non può che essere articolata.
La magistratura specializzata nelle investigazioni antimafia e le forze dell’ordine hanno imparato moltissimo, accumulando un prezioso patrimonio di informazioni e sviluppando una profonda conoscenza del fenomeno. Lo stesso vale per la Prefettura, che da oltre 10 anni – con le interdittive antimafia ma non solo – svolge un lavoro a tutela dell’economia sana e della regolarità degli appalti che ha pochi paragoni in Italia. Più difficile è dire se sia cresciuto il grado di consapevolezza fra le imprese e i cittadini. Qualche episodio fa ben sperare, anche se resta l’impressione che molti considerino la criminalità organizzata qualcosa di lontano, che non li riguarda.
E i politici, gli amministratori? C’è chi ha preso coscienza fino in fondo della gravità dei fatti portati alla luce dalle inchieste e dai processi, chi ha assunto decisioni concrete per contrastare le infiltrazioni, ad esempio potenziando i controlli nell’edilizia privata, chi ha capito che con certi soggetti non si prende neppure un caffè, che non ci possono essere ambiguità.
Ma il voto del 16 febbraio scorso in Senato su Carlo Giovanardi riporta le lancette indietro di molti anni. D’ora in avanti, qualunque parlamentare potrà sentirsi in diritto di intervenire su un prefetto o sulle forze dell’ordine per chiedere la riammissione di un’azienda in odore di mafia alla white list. Dopo il voto del Senato che ha stabilito che Giovanardi, accusato di minacce dalla procura di Modena e dalla Dda di Bologna, non può essere processato, come faranno un prefetto o un comandante provinciale dei carabinieri a dire di no alle pressioni di un deputato o di un senatore?
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