REGGIO EMILIA – Lo chiamavano “don Vittovio”, con la v al posto della r, imitando quel suo rotacismo che lo caratterizzava. Era papà di tanti ragazzi, senza mai averne concepito uno.
Don Vittorio Chiari, a 10 anni dalla morte, lascia un’eredità preziosissima nel campo educativo. Chiamato a Reggio Emilia dal vescovo Gilberto Baroni, don Chiari diede vita all’oratorio cittadino in via Adua dove maggiore era la concentrazione di ragazzi border line. Li rincorreva ovunque con una molteplicità di progetti formativi in modo da non perderne neppure uno.
Si occupò di disagio giovanile, partendo dai mutamenti che negli anni ’80 e ’90 vivevano le famiglie. Fu tra i primi ad andare incontro ai ragazzi stranieri e insieme al Comune diede vita ai progetti pomeridiani per lo studio, il gioco e successivamente anche la preparazione al lavoro, magari tenendo un naso rosso sulle narici perché la clowneria era nel suo Dna.
Con don Chiari, l’oratorio cittadino divenne un centro di attività e di pensiero. Riempì di giovani in più occasioni il palazzo dello sport, un luogo non religioso, per consentire ai ragazzi di confrontarsi liberamente con pensatori di vaglia sui temi dell’amore, della fede, della convivenza civile, del rispetto reciproco. Ancora oggi la Chiesa e l’intera comunità reggiana respirano, nel campo dell’azione giovanile, delle intuizioni di don Chiari. Quando stava per morire disse che avrebbe voluto essere sepolto nel cimitero di Treviglio, al fianco di un altro mito dei giovani della sua generazione: l’ex capitano della nazionale di calcio Giacinto Facchetti. Ora riposano l’uno accanto all’altro.
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