BOLOGNA – Omissioni, progetti per garantirgli la fuga, impronte digitali sparite: nell’aula del tribunale di Bologna – teatro del processo ai presunti mandanti della strage – riaffiorano elementi che raccontano della presunta rete di protezione che una parte degli apparati dello Stato aveva creato intorno al reggiano Paolo Bellini.
A farli emergere è la testimonianza di Raffaele Ponzetta, ex funzionario della Digos di Reggio Emilia. Era il 1981. Secondo il racconto di Ponzetta, il suo superiore Gaspare De Francisci gli riferì: “Nel carcere di Sciacca c’è un detenuto che si fa chiamare Roberto Da Silva. I servizi ci dicono che è Paolo Bellini. Sbrigati ad identificarlo perché ‘quelli’ ce lo vogliono sottrarre”. Ma Ponzetta ha detto di non sapere a chi si riferisse precisamente De Francisci. Ha parlato però di quello che è successo durante le procedure di identificazione quando il carcerato venne trasferito a Parma: “Lui negava di essere Bellini, quando ci rivolgemmo al distretto militare dove Bellini aveva svolto il servizio di leva ci dissero che da suo fascicolo mancavano proprio le impronte digitali“. Un particolare già presente nel libro “L’uomo nero le stragi (Paperfirst), scritto dal giornalista Giovanni Vignali.
Infine Ponzetta ha ricostruito la perquisizione fatta all’albergo della Mucciatella, di proprietà di Aldo Bellini, il padre di Paolo, il 4 agosto 1980. Erano passati solo due giorni dall’esplosione della bomba che aveva provocato 85 morti e più di 200 feriti. Insieme ad Aldo c’era Ugo Sisti, all’epoca procuratore capo di Bologna, insieme ad una terza persona che non venne mai identificata. La relazione non finì nel fascicolo perché ritenuta non importante e fu riscritta solo due anni dopo.
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