REGGIO EMILIA – Circa 20 anni fa una giovane laureata approda in stage nell’Ufficio delle Consigliere di Parità di Reggio Emilia. L’Università di Bologna organizzava allora un Master sulla cultura di genere e tu eri una delle frequentatrici. Lo stage era una fase curricolare della tua formazione e noi ci siamo conosciute così. Cosa ti aveva portato a fare quella scelta formativa dopo la tua laurea in storia?
“Mi sono laureata in Lettere Moderne con una tesi in storia contemporanea sulle Donne di Parma negli anni Cinquanta. Il lavoro di ricerca e di scrittura per la tesi mi ha portata a studiare una storia che mai nessuno mi aveva raccontata: la storia delle donne che sono venute prima di me. Leggere delle loro lotte per la richiesta dei diritti fondamentali all’istruzione, al lavoro, alla cittadinanza, all’emancipazione e all’autodeterminazione mi aveva letteralmente travolta. È stato per me uno squarcio e una rivelazione determinante nel mio “diventare donna”, come sostiene De Beauvoir. Durante la preparazione della tesi di laurea mi sono accorta, dunque, di quanto, nel mio percorso universitario, ma non solo, mi fosse mancato un approccio di genere. Sto parlando, di venti anni fa, non un secolo fa. Eppure, ancora, nei primi anni del XXI secolo, in Accademia gli studi di genere erano se non del tutto assenti, limitati a solo poche, elette, docenti che, con un enorme fatica erano riuscite a portarli all’interno dei propri monografici. È nato così il mio desiderio di dedicarmi allo studio della storia di genere. Fortunatamente in quegli anni a Parma insegnava Fiorenza Tarozzi, è stata lei a parlarmi del Master in studi di genere e politiche di pari opportunità. Un’esperienza che ricordo come illuminante nel mio percorso di formazione e di vita. Anna Rossi Doria, Anna Bravo, Lea Melandri, Maura Palazzi, Gianna Pomata, Raffaella Baritono, Dianella Gagliani, Adele Pesce sono state alcune delle nostre maestre. Erano lezioni a metà tra la lectio magistralis e l’autocoscienza, tra l’esperienza e la biografia. Il master prevedeva un tirocinio e io desideravo coniugare i nuovi saperi con una pratica politica femminista e così ho chiesto di poter lavorare con le Consigliere di Parità. Dall’Università di Bologna mi hanno messa in contatto con l’Ufficio di Reggio Emilia, dove ho avuto la fortuna, ancora una volta, di trovare una maestra che eri tu. Ci tengo tanto ai nomi che ho nomino perché è importante ricordare sempre le donne che ci hanno precedute, quelle che ci hanno fatto da modello in un percorso di liberazione e autodeterminazione che non è sempre facile e mai lineare. Rupi Kaur – una poetessa indiana – in una sua poesia dice: “mi reggo in piedi sui sacrifici di milioni di donne prima di me pensando cosa posso fare per rendere più alta questa montagna in modo che le donne dopo di me vedano più lontano”. Ecco quelle che ho nominato sono alcune delle donne che mi hanno permesso di guardare più lontano, ma ce ne sono tante altre, ovviamente”.
Antifascista, femminista: due aggettivi che utilizzerei se mi chiedessero di descriverti. Ti ci riconosci?
“Sì, non solo mi riconosco in questi due aggettivi, ma li rivendico con orgoglio. Credo che non si possa essere femminista senza essere antifascista e credo che dovrebbe essere altrettanto vera anche la seconda ipotesi. Purtroppo però non sempre è così e non lo è spesso per ignoranza nei confronti di ciò che il pensiero femminista ha prodotto. Ancora il femminismo è scambiato per il contrario del maschilismo. Le femministe sono ancora raccontate come donne brutte e invasate che odiano gli uomini. Nulla di tutto questo, ovviamente, è il femminismo ma si fa una gran fatica a scardinare una narrazione così ben costruita ed è difficile trovare uomini che si avvicinino al pensiero femminista. Eppure farebbe così bene soprattutto a loro iniziare a ragionare e ad abbattere quegli stereotipi di potenza, prestazione e perfezione nei quali, tuttora, pare riconoscersi la virilità tossica. Muore una donna ogni 72 due ore e sembra che il problema sia solo delle donne, quando sappiamo benissimo che è un problema strutturale legato alla nostra cultura patriarcale e che l’unico modo per abbatterla e farlo insieme”.
Con Madri della Res Pubblica la tua collaborazione con il Comune di Reggio Emilia ci portò a lavorare ancora insieme, se non ricordo male nel 2016. Si trattava di valorizzare profili identitari delle donne elette per la prima volta a Reggio Emilia. Lina Cecchini e Nilde Iotti vengono elette nel 46, ma nel settembre 45 il Consiglio Comunale, diciamo provvisorio, si insedia e per la prima volta nella storia ci sono 5 donne consigliere. La mostra ha emozionato, itinerato tra tanti comuni che l’hanno richiesta in uso a quello di Reggio Emilia. Ma quanto è necessario fare memoria?
“Fare memoria è fondamentale, ma bisogna anche farla bene. Penso ad esempio a come, troppo spesso, fare memoria coincida con operazioni retoriche e strumentali di utilizzo improprio della storia. Per questo dico che bisogna farla con rigore, con metodo e anche con grande responsabilità. Da qualche anno insegno italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di primo grado – le medie – per intenderci, e stando in classe mi sono resa conto di quanto ci sia bisogno di far sedimentare una memoria collettiva che non esiste, che è frammentaria, che è continuamente messa in discussione da un relativismo culturale che è pericoloso e profondamente dannoso. Soprattutto per quanto riguarda la storia delle donne fare memoria spesso significa assegnare nomi e volti a donne che rischiano di restare invisibili. L’operazione del NOMINARE è bella oltre che estremamente utile. Partire dalle biografie, infatti, è uno straordinario modo di fare memoria e insieme ricostruire percorsi di vite che intrecciano le lotte di rivendicazione e le conquiste, ma anche ci aiutano a comprendere le tante difficoltà di un sistema patriarcale e sessista che da sempre ha silenziato, ridicolizzato e depotenziato le lotte delle donne. Nominare è quello che facciamo anche con le pietre d’inciampo, oppure con la lotta per la legalità. Madri della Res Publica è stato un nominare donne sconosciute e renderci conto che nella nostra storia di donne emiliane abbiamo dei buchi incolmabili. Angiolina Bellentani, Leocadia Dalzini, Ilva Ferraboschi, Maria Tagliavini sono le donne a cui abbiamo dato un nome, ma ad alcune di loro non siamo riuscite ancora a dare un volto e una storia e questa è una sfida e un compito che vorrei rilanciare”.
Sei reduce da un’impresa importante e significativa, il Festival Re-Sister, voluto dalla Casa delle Donne di Parma. Non ho potuto partecipare ma ne ho letto e credo abbia lasciato un segno rispetto al valore che, oggi in particolare, ha il femminismo per una riscrittura di priorità e valori delle società ferite dalla pandemia. Pensi che la città di Parma si sia mostra permeabile a questa esperienza?
“Re-sister è stata una piccola utopia che si è realizzata. Organizzare, nel pieno della pandemia, un festival femminista è stato un voler tenere alta la guardia e l’attenzione su priorità che, al contrario, il sistema patriarcale e capitalista non solo non considera come priorità, ma come un capriccio di una minoranza. Il festival è stato il lavoro di un anno di assemblee, di incontri, di riflessioni per decidere quali temi portare all’interno dei dibattiti e quali ospiti chiamare. Abbiamo dato voce al pensiero femminista, queer, transfemminista e intersezionale. E soprattutto abbiamo chiamato al festival la città di Parma, che ha risposto in modo sorprendente, ma non solo Parma perché abbiamo richiamato persone da tutta Italia. Basti dire che nel giro di una settimana abbiamo raccolto la partecipazione di 120 volontariə e non perché siamo state bravə noi ma perché di femminismo ce n’è un gran bisogno e lo dimostra la partecipazione che troviamo in ogni nostra iniziativa”.
Il mese di novembre con la ricorrenza internazionale della Giornata per il contrasto e la prevenzione della violenza maschile sulle donne è diventato un periodo di sovresposizione delle Associazioni che gestiscono le case rifugio e i centri antiviolenza chiamate da enti e istituzioni a ragionare su questo drammatico lascito del patriarcato. Ci sono rischi di banalizzazione?
“Il rischio c’è, ma forse non è tanto quello che mi preoccupa. Io non sopporto più la narrazione delle donne come vittime da difendere. Le scarpe rosse appese ovunque, le panchine rosse, i minuti di silenzio, le serate di riflessioni sono importanti, ma non bastano. Ci vogliono reti di sorellanza vere. Ci vogliono luoghi dove le donne e le soggettività non binarie si possano sentire a CASA. Dobbiamo raccontare e far conoscere le storie di chi dalla violenza è uscita: Nicoletta Consentino delle cuoche combattenti, le donne di Lucha e siesta devono prendere parola e darci forza. Si deve parlare del problema culturale e strutturale della violenza, ma, come per la memoria, bisogna farlo bene. Parlare di violenza usando parole che sono violenza non va affatto bene perché non è banalizzare il male, ma ripeterlo, incoraggiarlo, giustificarlo, legittimarlo. I media, i social fanno ancora una narrazione della violenza che è tossica e terribilmente pericolosa. Il raptus, i continui tentativi di giustificare una rabbia, una frustrazione, l’ammiccare a quel “se l’è cercata” che ancora trasforma la vittima in colpevoli e deresponsabilizza l’uomo violento sono un altro problema di cui non possiamo non occuparcene”.
C’è una evidente crescita del protagonismo femminile nella vita pubblica italiana e mondiale. Ma le donne della politica e delle istituzioni saranno capaci di trasformare il mondo e di realizzare quella che Carla Lonzi definiva l’”estrema istanza del femminismo”, ossia la lotta per sottrarsi all’assimilazione, convincendo gli uomini ad abbandonare l’esclusività della loro tradizione, per trovare nel pensiero femminile orientamento per uscire dalle crisi del presente, da quella ambientale a quella della rappresentanza?
“Non basta essere donne per cambiare il sistema. Non servono solo numeri – sebbene pure quelli siano importanti – serve essere femministe e avere chiaro l’obiettivo e l’istanza da perseguire. Finché le donne, specie quelle in politica, continueranno ad assumere comportamenti maschili per potersi affermare e continueranno a ritenerlo il solo modo possibile di agire, difficilmente potremo convincere gli uomini ad abbandonare l’esclusività della loro tradizione, anche perché siamo noi le prime a ripeterla e confermarla come la sola vincente. Serve un’alleanza forte, serve sorellanza e so che non è facile da costruire perché fin da piccole ci hanno abituate a credere che tra donne non si sta bene, che le donne sono invidiose, perfide e che gli ambienti femminili sono i peggiori. Per questo ci servono consapevolezza, autorevolezza e una radicalità profonda che non deve farci paura, ma al contrario deve essere il nostro punto di forza e di partenza. Solo così arriveremo all’estrema istanza del femminismo e saremo tuttə più liberə”.
Natalia Maramotti
Chi è Elisabetta Salvini
Elisabetta Salvini è nata e vive a Parma, dove ha conseguito la laurea in Lettere moderne. Dal 2003, anno in cui ha ottenuto la specializzazione in Storia di genere e Politiche di Pari Opportunità presso l’Università di Bologna, ha concentrato la propria attenzione sulla storia sociale e di genere, collaborando con università, scuole, enti pubblici e gruppi di ricerca. Nel 2009 ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Parma. È autrice di “Ada e le altre. Donne cattoliche tra fascismo e demografia”, FrancoAngeli editore, 2013; Creatrici di storia. Il movimento delle donne reggiane degli anni Settanta nel ricordo di alcune protagoniste, scritto con Anna Appari ed edito da Fausto Lupetti nel 2014; mentre nel 2015, con Lorena Carrara ha pubblicato Partigiani a tavola. Storie di cibo resistente e ricette di parità, Fausto Lupetti editore. Insegnante, autrice, militante femminista e fondatrice della Casa delle donne di Parma.
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