REGGIO EMILIA – Ti laurei in Lettere moderne a Bologna, ma la tua vita non imbocca la strada, forse scontata, dell’insegnamento. Quando i sogni sono diventati realtà per Monica Morini?
“Ciascuno cresce solo se sognato diceva Danilo Dolci. Cresciamo negli occhi di chi sa incoraggiarci e riconoscerci. Non ho studiato lettere perche volevo insegnare, ma perché amavo le parole e mi fidavo di loro fin da bambina.
Grazie al suggerimento del mio insegnate di arte a 13 anni ho iniziato a praticare il teatro e da allora non ho mai smesso. Sono cresciuta nella città dei Cento linguaggi delle bambine e dei bambini, della Fantastica di Rodari, dei corsi di formazione teatrali internazionali a libero accesso anche per una ragazzina. All’università il gruppo teatrale nato al liceo fondò una compagnia con una produzione originale. Eravamo ingenui e incendiati di passione, raminghi per festival, alla ricerca di nuove visioni. Spettacolo dopo spettacolo, lo sguardo si andava formando, Thierry Salmon, Vacis, la Valdoca, il festival di Avignone.
L’università è stata fucina di pensiero, di rigore nella ricerca, di amore sconfinato per la parola e i testi, per la storia e le storie. Ma la vita è quello che accade mentre stai facendo altri progetti. Fondamentale l’incontro con il teatro delle Briciole, la selezione quasi casuale per una tournée internazionale in Francia , Inghilterra, Canada. E poi il lavoro con una regista e intellettuale straordinaria come Letizia Quintavalla, che mi ha portato a una piccola tournée negli Stati Uniti. Mi sono laureata mentre già lavoravo in Teatro come professionista. Mi sono fermata negli Stati Uniti a studiare. Da lì la mappa tracciata dal mio errare ha cominciato a prendere forma. Ho inanellato altra pratica teatrale con maestre e maestri contemporanei fino a incontrare Marco Baliani che mi selezionò per i Porti del Mediterraneo. Eravamo 15 giovani che provenivano da Israele, Francia, Bosnia, Spagna, Egitto. II lavoro sulle tessiture musicali con Antonella Talamonti, sulla fiaba e il patrimonio popolare, si andava chiarendo, intravedevo la strada da percorre nella ricerca.
Comprendiamo il nostro destino errando, ciò che da fuori consideriamo errori e divagazioni sono i crocevia che ci dicono di che stoffa è fatto il nostro talento. Del resto l’arte ha a che vedere con ciò che è inaspettato, non previsto, uno scarto sulla mappa del reale. E quegli anni di formazione pieni di viaggi, aule universitarie, centri culturali, incontri con esseri umani così diversi per lingua, età, esperienza sono stati la mia “accademia eretica”, la non-scuola, il mio orecchio rovesciato su un noi che mi allenava alla scena. Il teatro è, ancora oggi, un sogno da sognare insieme, un atto di comunità, che ci rende pensanti e vivi”.
“Mentre si dorme si cresce, nei sogni si cresce”, così dici in una ballata dedicata ai bambini prematuri, ai loro genitori e a chi li cura. Questo legame tra parola e sogno va in scena in una delle edizioni di Reggionarra, nel chiostro piccolo di San Pietro a Reggio Emilia, in cui allestisci lettini candidi nei quali adulti e bambini possono sdraiarsi per ascoltare le tue storie. Parole e sogni pensi siano un antidoto all’impoverimento emotivo che ci minaccia?
“I lettini della buonanotte sono la prima tappa di una trilogia dedicata alla relazione in narrazione. Nascono dall’intuizione che ogni essere umano dovrebbe ricevere l’iniziazione alle storie come atto di infinita tenerezza e di cura. Siamo una specie fragile, senza zampe ne artigli, i racconti ci incoraggiano, sono un prontuario per la vita, il catalogo dei nostri destini.
Tutti abbiamo bisogno di un tetto di storie. Raccontare ci aiuta a riordinare il disordine della vita. Chi sa narrare sa ben ascoltare. Non c’è niente di più intimo e antico di due esseri umani che si raccolgono per raccontarsi. Dovremmo ricucire il tempo per ritrovarci occhi negli occhi, per ascoltarci, per affondare dentro il patrimonio di memoria e immaginazione che abbiamo e contagiarci di bellezza, silenzi, incanto. Il racconto è fatto di corpo che respira, si arresta, oscilla, di parole che si versano negli occhi di chi ascolta, il racconto si fa insieme, impastando un sentire che si fila incandescente tra il qui e il là. Tutto questo disobbedisce alla muta solitudine dei cellulari, alla rete virtuale che ci annoda su noi stessi. Gli adulti non hanno meno bisogno dei bambini di storie e di esperienze come questa.
Chi ci racconta storie ci riconosce, ci vede, ci sottrae momentaneamente dal frastuono, alla frammentarietà, ci conferma che siamo vivi e abbiamo un valore. Kolleritsch dice che il narrare cerca ciò che è scomparso, racconta il futuro ricorrendo al “c’era una volta”. Le storie in realtà non ci rassicurano, vorrebbero parlare del silenzio, dell’aperto, dei significati delle parole quali forze che vengono alla luce, vorrebbero raccontare di ciò che danza in noi, della grazia e dello spavento.
La parola è musica, la voce è relazione e libera cascaste di endorfine. Nel reparto di neonatologia, uno dei bambini prematuri più gravi dopo l’ascolto della ballata alla vita ha aperto gli occhi e i suoi parametri vitali sono andati a 100 su 100. le parole non guariscono ma curano.
C’è un miracolare che sta dentro le parole, cercate, ascoltate, custodite. Leggo quasi quotidianamente poesia, Calvino diceva che la poesia consiste nel fare entrare il mare in un bicchiere. La poesia è antidoto potente contro l’inaridimento dei pensieri, contro la manomissione delle parole, la poesia è il bambino che urla che il re è nudo.
I versi poi sanno aspettare, tengono le domande, disordinano le architetture di chi pretende di spiegarci il mondo e avere risposte per ogni cosa. I versi sono conchiglie che stanno in ascolto.
Per questo amo tanto le poetesse, le parole scovate tra le pagine della Candiani, Gualtieri, Annedda, Quarenghi, l’elenco è molto più lungo, ma queste stanno sul mio comodino e mi sottraggono dal buio.
Ascolto e raccolgo da sempre le parole delle bambine e dei bambini. Sono profeti senza voce. Ci raccontano gli inizi che abbiamo perduto e abitano il linguaggio dei sogni, conoscono l’invisibile”.
Nel tuo percorso umano e professionale si vede un chiaro segno di militanza femminista. È forse in Fuochi, uno spettacolo che racconta delle antenate ribelli, che emerge la tua fiducia verso l’agire trasformativo del pensiero femminile e femminista?
“Antenate, che bel sostantivo plurale femminile. Una parola da tenere come una fune, una parola che bussa alla memoria e apre una porta sigillata dalla cultura patriarcale. Non ci è stato dato per secoli di riconoscerci in modelli femminili liberi. Non venivano nominate o raccontate le donne capaci di dire No, di cambiare la storia.
Chi sono le vostre antenate? Lo domando a persone di ogni età, di ogni provenienza. Ai giovani rifugiati che mi hanno raccontato le loro nonne guaritrici, le loro madri viaggiatrici.
Lo domando alle ragazze e ai ragazzi che incontro nei progetti di formazione nelle biblioteche, nelle scuole. Noi nasciamo da una domanda. Se il modello femminile che i media ci propongono ci mostra corpi silenziosi e sorridenti, strizzati come merci dentro scampoli di stoffa, occorre chiamare a gran voce le nostre alleate, la genealogia di un femminile, disobbediente che attraversa le storie e la storia. Da Antigone a Samia Yusuf Omar.
La geografia delle antenate del passato e del presente è una mappa di forza generativa, di esplosione verso il cambiamento possibile. Il patriarcato ha negato, nascosto, silenziato la voce delle donne. Raccontare è riparare i traumi. Scegliere le parole è un atto politico, scovare le storie cucite dentro le pieghe della storia o annegate nell’oblio dentro i libri scritti da soli uomini è rovesciamento di prospettiva.
Occorre riabitare il linguaggio per raccontarle, per raccontarci, per dire chi siamo, da dove veniamo. Per raccontare il presente, per ribaltare le storture. Le parole ci pensano, la cura delle parole è una forma di intelligenza che tiene insieme i pezzi. Il patriarcato la teme. L’intelligenza del sentire frantuma le gerarchie del potere, perché non le riconosce.
Credo profondamente nell’agire trasformativo delle donne, perché è in loro la capacità di costruire relazioni, la propensione non a classificare e riordinare il mondo ma a riconoscerlo come luogo dei viventi.
Eppure molta è la strada da fare.
Irene Biemmi ricercatrice dell’università ha meticolosamente analizzato e classificato gli aggettivi che qualificano ancora oggi le donne nelle storie lette sui libri di testo scolastici. Le donne sono silenziose, pazienti, comprensive, angosciate, gli uomini sono forti, audaci, coraggiosi, liberi.
La rivoluzione è sempre culturale. Parte anche dalle parole che possono imprigionare o liberare il sentire. Sogno un mondo di uomini liberi di sentirsi teneri e premurosi e di donne audaci e coraggiose che non devono difendersi da chi le vuole obbedienti e silenziose.
Ci ricorda la scrittrice Chimamamnda Ngozi Adichie, dovremo essere tutti femministi.
Battersi per la parità sociale, economica, politica tra i sessi è a vantaggio di ogni abitante del pianeta”.
Dal tuo sodalizio con Bernardino Bonzani, come compagno di vita e di lavoro, tramite l’attività del Teatro dell’Orsa emerge l’interpretazione di una forma teatrale che ha una doppia valenza artistico-culturale e sociale. Il vostro lavoro di impegna ad agire attraverso l’arte nei contesti sociali per favorire una partecipazione che non abbia solo un approccio teorico?
“Alcune esperienze artistiche della nostra vita teatrale sono state trasformative. L’incontro con un gruppo di giovani rifugiati, la costruzione dello spettacolo Questo è il mio nome e poi il progetto Argonauti vincitore di MigrArti, ha aperto e generato un pensiero di teatro partecipato e di comunità radicato sul territorio ma abitato dal mondo. Un teatro fatto di molte voci, di più lingue, ragazze e ragazzi italiani, di seconda generazione e rifugiati richiedenti asilo, di professionisti e non. Il teatro è la tavola dei Feaci dove Odisseo può sedere e raccontare la sua storia, è la nave Argo che per prima solca il mare alla conquista del vello d’oro.
Le azioni teatrali di Argonauti hanno attraversato la città, i centri sociali, i parchi, le vie, coinvolgendo persone di tutte le età. È stato teatro politico e poetico. Trenta protagonisti, una città in cammino insieme alla Banda della Colchide, fino a raggiungere con l’Argobus le saline di Cervia per un epilogo indimenticabile all’alba.
Questa comunità festosa, ha lavorato insieme per mesi e ha trovato un luogo per riconoscersi e ritrovarsi.
Dopo vent’anni di lavoro sul territorio, non abbiamo ottenuto un teatro dalla nostra città ma, senza arrenderci, ne abbiamo costruito uno: la Casa delle Storie. Bernardino in questo è stato fondamentale per tenacia e determinazione. La costruzione della Casa, è stata voluta e pensata con un processo partecipato. Un crowdfunding sorprendente che ha coinvolto centinaia di persone. Ogni mattone e ogni parola salvata ha un volto e una storia. Ci sono i genitori narratori che abbiamo formato a reggionarra. Ci sono i giovani narratori del Bando internazionale che conduciamo con Antonella Talamonti in collaborazione con Reggio Children da 8 anni, c’è il Laboratorio Permanente di Teatro dell’Orsa e tutte le persone delle realtà sociali, del mondo del volontariato e della scuola che sono state toccate e coinvolte nei processi creativi in questi anni.
C’è una comunità pensante fatta di molti cuori. Una comunità inclusiva.
L’evento 100 voci ne è l’espressione. Da tre anni raccogliamo un archivio di parole salvate durante la performance aperta che conduciamo. Gli artisti, le artiste e il pubblico in tre minuti di microfono aperto possono salvare una parola che trovi bellezza e faccia restare umani. È un esercizio di attenzione e ascolto costante che rivela un patrimonio di memoria e immaginazione stretto dentro il nodo di una parola in una storia. Un affresco che disegna radici di futuro.
In questo tempo sospeso abbiamo raccolto con le 100 voci, le testimonianze degli operatori dei centri diurni. La memoria di chi ha vissuto l’indicibile. Abbiamo iniziato a lavorare a Tè End, un percorso che indaga il confine e diventa rito nel rito; dove una tazza di tè caldo e profumato dà coraggio al cuore che duole mentre parliamo dei misteri della vita. Tè End inizia con il concerto per alberi, l’apertura di una porta per affacciarsi attraverso la musica e le parole a un sentimento di cordoglio da elaborare insieme, collettivamente e intimamente. I versi delle poetesse e dei poeti contemporanei, le musiche dal vivo si liberano sotto gli alberi dove le foglie si lasciano cadere. Foglie raccolte e conservate. In un rito intimo per spettatore solo, su quelle foglie vengono scritti i nomi di chi abbiamo perduto. Su una panchina parlante qualcuno ha parole che ascoltano, frammenti di vita, memoria di chi non c’è più. Parole per dirci ciò che abbiamo taciuto. La musica di un canto è cura e conforto. I versi e le storie sono balsamo per le ferite. Quelle stesse foglie verranno liberate nelle acque del fiume Po per raggiungere il mare accompagnate dal suono di una banda e dai canti arcaici della tradizione popolare.
Il teatro ha il compito di elaborare una grande ferita collettiva, il rito mancato, il congedo alle vite che sono volate via senza un saluto. Anche questo è un modo per attraversare questo tempo insieme”.
Era il 2006 quando è stato rappresentato per la prima volta al Teatro Cavallerizza a Reggio Emilia lo spettacolo: “Nilde: una donna della Repubblica”. La storia di una delle “madri” della Costituzione mi pare valorizzi molto la radice femminile dell’autorità di quella che è stata chiamata “la signora della Repubblica”. Hai fiducia che l’autorità femminile al governo possa rigenerare le istituzioni pubbliche?
“Nilde Iotti è stato esempio luminoso di intelligenza, equilibrio, perseveranza nella lotta per l’emancipazione femminile.
Raccontare la sua vita è stato attraversare anche la trama di una storia corale, quella delle donne dell’Udi, immergersi nelle testimonianze di persone di straordinaria generosità e lucidità come Ione Bartoli, Loretta Giaroni, Eletta Bertani. Senza la loro volontà di ferro, l’energia incrollabile non sarebbe stata possibile la conquista di Asili Nido e Scuole Comunali dell’Infanzia. Scuole dove sono cresciuta, dove è cresciuto mio figlio e grazie alle quali ho potuto lavorare ed essere madre senza contraddizioni e rinunce.
La Iotti sosteneva il valore di autonomia della lotta di emancipazione femminile come uno dei nodi fondamentali dell’evoluzione della società. Ha pagato a caro prezzo le proprie scelte, la sua coerenza, la sua autonomia. Ma non ha ceduto mai. Non ha rinunciato al suo lavoro e al suo pensiero, anche sotto pressioni grandissime.
Nel corso di mezzo secolo in parlamento è stata promotrice della legge sul diritto di famiglia, la battaglia sul referendum per il divorzio, l’approvazione della legge sull’aborto e della fondamentale legge contro la violenza sessuale. Nel 1990 ha firmato il progetto di legge sui tempi di vita delle donne, mentre era presidente della Camere. Un progetto di legge che costringeva uomini politici, ministri, economisti, amministratori locali, a fare finalmente i conti con la vita concreta delle donne. Ogni donna, diceva, sa quanto è importante far quadrare i tempi della vita in questa organizzazione sociale. Come sarebbero stato possibile realizzare i grandi cambiamenti di emancipazione femminile senza le donne.
Nilde Iotti è morta andandosene in punta di piedi, lasciandoci un’enorme eredità morale. Si è congedata con poche righe dedicate alle compagne di viaggio, alle amiche di sempre.
Mi commuove ogni volta rileggerla. Penso al lavorio costante delle antenate, a quelle mani invisibili che ci sostengono, ai sacrifici fatti, ai tagli, agli strappi, sento i passi delle donne sulle piazze, nei secoli, le loro voci che si alzano in coro. E io le sento ancora. Il fiume carsico dell’emancipazione femminile, pare scomparire ma poi zampilla e preme per i cambiamenti necessari.
Allora un Paese civile per non arretrare, per non spezzarsi, deve riconoscere l’imprescindibile valore delle donne nella vita sociale e politica. La Presidenza della Repubblica non può essere un ruolo riservato a soli uomini. È una visione miope. Il vento dell’emancipazione soffia sulle vele e non si ferma. È tempo di farci traghettare verso un futuro più giusto, un mondo di donne e uomini più felici. Si chiama pari dignità, è scritta bene nell’articolo 3 della nostra luminosa Costituzione. Pare applicandolo ci si allunghi la vita”.
“Questa casa è in fiamme? O siamo noi a cuocerci lentamente come rane ignare nella pentola che abbiamo acceso?” Queste domande ci provocano in “Saluti dalla Terra”. Seguendo lo spettacolo ci emozioniamo, sorridiamo e ci spaventiamo perché si mette in scana la coscienza di essere all’epilogo di un’epoca. Giovani e donne scendono in piazza a manifestare per arrestare i comportamenti che generano disastri climatici, ma i decisori politici fatica a muoversi. Pensi che esista una questione di genere legata al cambiamento climatico e che l’ecofemminismo sia una strada per ripensare il futuro?
“Abbiamo iniziato a comporre Saluti dalla Terra verso la fine di un’era nella quale, anche se avvertivamo il pericolo, tutto ci sembrava normale. Potevamo continuare a vivere come sempre perché non sarebbe capitato a noi, non sarebbe capitato qui. Pensavamo di poter continuare ad essere i signori del creato, di potere tutto, di andare avanti come prima. La crisi che stiamo attraversando ci racconta che quell’era è finita. La pandemia è una sventura globale, un trauma dell’antropocene che ci ha fatto capire quanto siamo vulnerabili. Servono nuove azioni individuali e collettive verso l’ambiente. Siamo sulla soglia di un nuovo tempo.
Serve agire presto e insieme. L’ecologia moderna ci insegna che non può esistere giustizia ambientale senza giustizia sociale, tutto è collegato. Per questo Saluti dalla terra si è costruito con un processo partecipato, con giovani di seconda generazione, ragazzi rifugiati, fino alle protagoniste del Fridays for future.
La nostra ricerca cammina in avanti, in ascolto, verso le ragazze e i ragazzi. Lo scorso anno durante il festival Orticelli ribelli, ho incontrato Annalisa Corrado straordinaria ecologista per formazione e professione e come dice lei stessa: “femminista per senso di giustizia e necessità”. Una ecofemminista. È stata una folgorazione, un riconoscimento reciproco. Dal suo libro Le ragazze salveranno il mondo prenderà forma la nostra nuova ricerca e produzione.
Parlare di donne ed ecologia vuol dire raccontare della capacità di tessere reti, mettersi al servizio di cause altissime, sporcarsi le mani, animare processi partecipativi orizzontali, che hanno avuto attenzione e cura dei più fragili.
Le donne raccontate nel libro della Corrado, da Rachel Carson a Greta Thumberg, hanno dovuto respingere attacchi sessisti violenti, insensati, trovare la forza di risollevarsi, creando legami rivoluzionari e trasversali.
Abbiamo bisogno come l’aria di farci impollinare dalla forza cristallina di queste vite, di raccontare il pianeta con meraviglia, di opporci con ostinazione alla cecità dei saccheggiatori di futuro.
Scrive Annalisa Corrado:“Mi pare ogni giorno più evidente, che una società che si privi, nei luoghi di responsabilità e potere, dello sguardo delle donne sia una società destinata alla frammentazione, allo scempio ambientale, all’incapacità di avere uno sguardo lungo e una visione di insieme ad un tempo. Una società destinata al fallimento”.
L’ecofemminismo è una via generativa, tenace, empatica, capace di creare partecipazione attiva. È una fiaccola che resiste ai rapaci detrattori. Siamo chiamati a un cambiamento radicale. Ce lo hanno insegnato loro, la rivoluzione globale non si fa da soli. Ma milioni di rivoluzioni locali, fanno la rivoluzione globale.
La Carson sosteneva che chi contempla la bellezza della terra trova riserve di forza che dureranno quanto la sua stessa vita. Iniziamo da lì, insieme”.
Natalia Maramotti
Chi è Monica Morini
Attrice, autrice e regista del Teatro dell’Orsa di cui è fondatrice.
Conduce da anni un percorso di ricerca sul teatro di narrazione, con corsi rivolti ad attori insegnanti e genitori in collaborazione con biblioteche, Scuole e Università.
Dal 2006 ha dato vita come formatrice e direttrice artistica a Reggionarra.
Conduce da anni il Corso Internazionale di Formazione per Giovani Narratori azione in collaborazione con il Centro Internazionale Loris Malaguzzi di Reggio Emilia,
Ha ideato e condotto percorsi di formazione per giovani rifugiati e richiedenti asilo e di seconda generazione che hanno dato vita a spettacoli teatrali.
È docente in corsi di medicina narrativa in collaborazione con la facoltà di Scienze della Formazione con Università di Reggio/Modena,
È autrice dell’albo illustrato A Ritrovar le Storie finalista Premio Andersen e vincitore Premio Elsa Morante “Il mondo salvato dai ragazzini”; e di Qui ci sono le altalene entrambi i libri sono nati da progetti che hanno al centro il valore delle storie e della narrazione.
Ha ricevuto il Premio Ustica per il teatro di impegno civile e sociale nel 2003 con “Cuori di terra” nell’ambito di Premio Scenario e, in seguito, numerosi altri premi a livello nazionale per l’interpretazione e la regia di spettacoli teatrali per adulti e per ragazzi.
Ha ideato e fondato la Casa delle Storie, spazio di arte, ricerca e teatro.