La sentenza della Corte d’assise d’appello di Bologna ha radicalmente cambiato l’esito del processo di primo grado per l’omicidio di Saman Abbas, la 18enne pakistana uccisa la notte del primo maggio 2021 davanti alla sua casa di Novellara e poi sepolta in una fossa sotto terra. Un ribaltone – chiariscono le motivazioni – dovuto in primo luogo alla diversa considerazione della testimonianza del fratello Alì Haider.
***
“Inaffidabile” per il clan familiare, che non lo informa e non lo rende partecipe dell’omicidio della sorella; “inattendibile”, per la corte di Assise del tribunale di Reggio che ha escluso la sua testimonianza per i troppi non ricordo e diverse incongruenze; “decisivo” in Appello per condannare all’ergastolo i cugini Noman Ulhaq e Ikram Ijaz, assolti in primo grado, aggravare la pena dello zio Danish Hasnain a 22 anni e far riconoscere la premeditazione e i motivi abietti.
Le 488 pagine delle motivazioni, pubblicate ieri, con cui la prima sezione penale della corte d’Assise d’appello di Bologna, lo scorso 18 aprile, ha ribaltato la sentenza del Tribunale di Reggio, attribuiscono un ruolo decisivo nella ricostruzione della tragedia di Saman Abbas alla testimonianza del fratello Alì Haider che all’epoca aveva 16 anni. A lui, ammesso come parte civile, è stata riconosciuta una provvisionale di 50mila euro, mentre in primo grado non era stato ritenuto credibile ed era stato sentito in qualità di testimone indagabile. Perché questa svolta?
In primo luogo, il Tribunale di Bologna considera che il “contributo informativo fornito” rientri tra le cosiddette “dichiarazioni progressive”, la sua consapevolezza dell’accaduto si sarebbe cioè sviluppata all’interno di un percorso di crescita personale. Nei giorni successivi l’omicidio della sorella, il giovane avrebbe anche subito pesanti pressioni dai genitori per raccontare una versione dei fatti che tutelasse gli altri componenti del clan coinvolti. “Non dire i nomi”, gli intima più volte dal Pakistan dov’era fuggito, il padre. Già il primo maggio 2021, a meno di 24 ore dall’uccisione di Saman, però, aveva ricevuto un vocale dalla zia di Londra, Shamsa Batool, in cui gli si suggeriva cosa rispondere a chi chiedeva perché i genitori erano partiti per il Pakistan. Pressioni continue che, secondo l’Appello, condizionarono le prime testimonianze del giovane che da subito però accusò lo zio dell’omicidio e, già a giugno, i cugini Ijaz e Noman di aver scavato la fossa. L’ultimo tentativo arrivò prima dell’incidente probatorio del 15 giugno 2021, quando fu invitato ad accusare dell’omicidio altri due connazionali, Amjad e Fakhar, e a indicare che il corpo di Saman si trovava a Guastalla. Alì Haider si trova così tra due fuochi, la famiglia, il clan, e gli inquirenti.
Con il passare del tempo, saranno sempre più frequenti gli scontri con i genitori e il giovane imboccherà una strada di autonomi. “Se non c’è più mia sorella – dice a fine giugno – non c’è più né la mia mamma né il mio papà”. La sua maturazione è per la corte d’Appello la chiave per arrivare a considerare attendibili le sue dichiarazioni in dibattimento a cominciare da quella in cui colloca oltre a Danish, anche Ikram e Noman sul luogo del delitto e in cui rivela che già giorni prima dell’omicidio aveva sentito i familiari parlare di “scavare” una fossa. Testimonianza decisiva per la premeditazione.
Leggi e guarda anche
Reggio Emilia Novellara appello Bologna omicidio sentenza fratello Saman Abbas Ali Haider premedicazione