BRESCELLO (Reggio Emilia) – Perchè ci sono voluti quasi 9 anni? Era il novembre del 2013 quando, per la prima volta in provincia, il tribunale di Reggio decideva di utilizzare lo strumento della misura di prevenzione patrimoniale contro la ‘ndrangheta, a carico del brescellese Francesco Grande Aracri fratello del boss Nicolino.
“E’ dipeso tutto dall’impegno e dal lavoro dei singoli di fronte alle difficoltà e lungaggini normative”, afferma Alberto Peroni, curatore dei beni di Grande Aracri. Capannoni e palazzina di via Breda Vignazzi valgono 700mila euro. Di quella confisca a Grande Aracri mancano da destinare beni per un milione di euro: immobili e un terreno industriale a Brescello, sei appartamenti a Suzzara, un immobile in Calabria. “La destinazione dipende sempre dai tempi: bisogna finire la verifica dei creditori e capire dall’agenzia delle entrate i debiti di Grande Aracri”, spiega Peroni.
Il grande rischio del tempo che passa a causa di “pastoie normative”, così le ha definite l’avvocato Rosario Di Legami, amministratore unico dei beni sequestrati con l’inchiesta Aemilia in attesa di confisca definitiva, è quello della svalutazione, anche se, affittando temporaneamente com’è stato fatto, è possibile comunque agire anche per salvare il salvabile delle aziende. “Questo dev’essere il fil rouge; i creditori hanno tutti i diritti, ma io credo che la finalità pubblica in ultima istanza debba prevalere su quella privata”, dice Di Legami.
In Italia le imprese – intese come soggetti giuridici – in mano all’Agenzia per l’amministrazione dei beni confiscati sono 2.300. Quelle che nella lista sono collocate nel territorio reggiano sono quasi tutte legate all’inchiesta Aemilia. “La previsione è che i tempi per la loro assegnazione si accorceranno, perché l’Agenzia ha potenziato il proprio personale, la parte di addetti a questo tipo di attività”, sono le parole di Fernando Verdolotti, dirigente dell’Agenzia.
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