REGGIO EMILIA – “Con le fiamme ancora alte, avrei chiesto all’azienda della presenza di amianto. Avrebbero così potuto prendere delle misure subito”. Davide Vasconi, referente di Afeva (associazione famigliari e vittime amianto), abita a 500 metri da via Due Canali e al rischio amianto ha dedicato tutta la vita. Un nemico subdolo, che presenta il conto ad anni di distanza e in modo casuale. Per questo è così difficile da affrontare. E’ passata l’idea che le morti da amianto siano dovute solo a un contatto diretto e prolungato negli stabilimenti di lavorazione e che il picco sia già stato raggiunto. E invece non è così. “Abbiamo un numero che va da 23 a 26 casi di mesotelioma pleurico all’anno dovuti all’amianto, malattie riconosciute dall’Inail. Ce ne erano tante a Reggio. Ma vi sono anche casi da esposizione ambientale”, continua.
Di mesotelioma pleurico ci si può non ammalare mai, ma anche morire senza aver lavorato direttamente le fibre del minerale. “C’è gente che lavora tutta la vita a contatto con l’amianto, e non si ammala, e chi come il barbiere di Castelnovo Sotto si ammalò tagliando i capelli degli operai”.
L’incendio che ha devastato gli stabilimenti Inalca e Quanta, secondo Vasconi, conferma, che il Piano Amianto dell’Emilia Romagna non è la soluzione, non basta incapsulare l’amianto per evitare la dispersione delle fibre perché in caso di eventi tragici, incendi ma anche terremoti e alluvioni come già sperimentato in regione, il sistema di controllo salta e l’ambiente circostante viene contaminato. L’amianto deve essere rimosso per sempre. Una sfida che si può vincere come dimostra quanto fatto a Rubiera: “Ha rimosso l’equivalente di 67 campi da calcio di amianto”, chiosa Vasconi.
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