REGGIO EMILIA – In apparenza è tutto più o meno come prima, ma nella sostanza un cambiamento c’è ed è importante: il titolare della concessione per la gestione del servizio idrico integrato della nostra provincia dal 2024 al 2040 non è più una società privata, ma una società controllata dai Comuni reggiani con il 60% delle quote. Alla proprietà pubblica delle reti acquedottistiche si aggiunge dunque il controllo pubblico della società titolare della concessione.
Non è il modello propugnato a suo tempo dal Comitato Acqua Bene comune, che avrebbe voluto la ripubblicizzazione totale del servizio, ma è una risposta al referendum del 2011 sui servizi pubblici. Una risposta forse solo parziale, magari insufficiente, ma certo un tentativo di coniugare controllo pubblico sulla gestione del servizio idrico e sostenibilità economica. E di risposte al referendum, in questi 12 anni in giro per l’Italia se ne sono viste poche. Anzi, per dirla tutta Reggio è l’unica provincia del nostro paese ad dato un seguito a quel referendum. Gli altri non ci hanno neppure provato.
Aggiungiamo un’altra considerazione: la gara per la selezione del socio di minoranza dei Comuni è stata una gara vera. Una gara durata tre anni, per vincere la quale Ireti, cioè il gruppo Iren, ha dovuto mettere sul piatto una notevole mole di investimenti e accettare un ribasso sui ricavi di oltre 5 milioni di euro all’anno per 17 anni. Il merito è di Atersir, l’Agenzia regionale dei servizi, che ha messo a punto un bando talmente rigoroso da spingere Acea di Roma e la stessa Iren, nel 2020, a fare ricorso al Tar. Iren poi ritirò il ricorso, mentre Acea andò fino in fondo, sostenendo che la procedura era illegittima, perché il socio pubblico manteneva un controllo totale sul servizio, mentre l’operatore privato veniva relegato al ruolo di finanziatore degli interventi. Il ricorso fu poi respinto dal Tar. Ma le argomentazioni di Acea suonano paradossalmente come la migliore conferma della bontà dell’operazione.
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