REGGIO EMILIA – White list, interdittive antimafia, protocolli di legalità, badge di cantiere: nel corso degli anni, gli strumenti di contrasto all’infiltrazione della criminalità organizzata in economia si sono moltiplicati. Alcuni, come le white list e le interdittive prefettizie, sono frutto di una legislazione nazionale, ma hanno ricevuto particolare impulso a partire dal 2009, quando alla guida della Prefettura di Reggio arrivò Antonella De Miro. Altri strumenti sono invece il risultato dell’iniziativa degli enti locali e delle associazioni economiche del territorio. E’ il caso dei protocolli antimafia e del badge di cantiere, strumento che consente di monitorare in tempo reale la manodopera presente in cantiere, combattendo non solo il lavoro nero, ma anche il dumping contrattuale, cioè l’uso nei cantieri di personale a cui non viene applicato il contratto del settore edile, ma contratti più economici per le aziende.
Questo sistema di controlli sta dando buoni risultati e sta facendo scuola: Roma Capitale, ad esempio, ha “sposato” il badge di cantiere. Ma il meccanismo ha un limite, di cui gli addetti ai lavori sono ben consapevoli: tutti gli occhi sono puntati sul settore pubblico. L’unica eccezione è l’addendum ai protocolli di legalità che ha esteso all’edilizia privata – fatto senza precedenti in Italia – i meccanismi di prevenzione in vigore per l’edilizia pubblica. Per il resto tutto o quasi dipende dalla buona volontà delle aziende.
Un esempio: se, poniamo, una ditta di trasporti viene colpita da interdittiva antimafia, non può più lavorare con la pubblica amministrazione, ma i privati possono continuare a servirsene. Altro esempio: se un Comune realizza un’opera pubblica anche piccola, che costa 500mila euro e che richiede sei mesi di lavori, è tenuta ad adottare il badge di cantiere. Ma se un’azienda privata costruisce un nuovo stabilimento investendo decine di milioni, il badge di cantiere non c’è e la vigilanza su chi entra e chi esce è assai più blanda.
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