BOLOGNA – Un’udienza sconcertante sui delitti di ‘ndrangheta del 1992, infarcita dal testimone solamente di ‘non ricordo’. E dopo un’ora di vuoto pneumatico nella memoria di quest’uomo la Corte si ritira per poi uscire dalla camera di consiglio dicendo ‘basta’, non ammettendo come prova questa deposizione.
Chi dice di non ricordare più nulla è nientemeno che il boss 60enne Nicolino Sarcone, condannato in via definitiva a trent’anni di reclusione per i due omicidi di 33 anni fa e che sta scontando al carcere duro a Rebibbia anche le altre pene inflittegli in Aemilia ed Edilpiovra. Appare invecchiato, barba e capelli bianchi. E’ videcollegato con l’aula bunker del carcere bolognese della Dozza e come teste assistito ha al suo fianco i suoi due legali.
Sarcone ha sempre negato di essere stato parte attiva nella ‘ndrangheta al Nord, un’affermazione di base ritenuta falsa dai magistrati dell’Antimafia da qui il ‘no’ alla sua proposta di divenire collaboratore di giustizia. Ma fra il 2016 e il 2017 ha comunque riempito diversi verbali ammettendo le sue responsabiliti sui delitti del 1992, coinvolgendo però anche le altre persone ora sul banco degli imputati nell’appello bis. E le domande dell’accusa – cioè della pg Silvia Marzocchi e della pm antimafia Beatrice Ronchi – sono proprio partite da quanto affermato dal boss in quei verbali che gli hanno evitato la condanna all’ergastolo.
Ma non si entra in nessuna vicenda, perché si sbatte solo contro un muro: il teste non conferma né smentisce, non ricorda e non si sposta da lì. ‘Ho avuto dei problemi di salute – rimarca Sarcone – dieci anni al carcere duro sono stati pesanti per la mia mente, non ricordo nemmeno di aver partecipato agli omicidi di Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero‘. Gli viene contestato dalla pg Marzocchi che durante un interrogatorio sull’assassinio di Brescello aveva depositato un manoscritto di cui ne aveva letto alcune pagine al magistrato. Sarcone si limita a dire che effettivamente qualcosa aveva scritto in cella, ma poi quei fogli gli erano stati rubati. Per lui gli imputati di questo processo sono solo dei compaesani, non ha memoria di incontri preparatori dei due omicidi e men che meno dei tanti soldi messi a disposizione al gruppo di fuoco dai Ciampà che definisce ‘una famiglia di grandi lavoratori’.
Non ricorda nemmeno della trappola organizzata a casa di Antonio Valerio per uccidere Paolo Bellini ma quest’ultimo non si presentò all’incontro. Un’escalation di ‘non so’ e ‘sto cadendo dalle nuvole’ che s’inserisce in un botta e risposta piuttosto teso fra alcuni avvocati difensori e la Corte, il che richiede l’intervento deciso della presidente Anna Mori. Al termine, comunque, le difese ritengono giusto lo stop della Corte ritenendolo in linea con il codice ed i principi del gusto processo. Ci sarà ora da capire se gli atti di quanto accaduto saranno o meno inviati dai giudici alla Procura generale per valutarne eventuali profili penali. A tutto questo hanno assistito via video gli imputati Nicolino Grande Aracri ed Angelo Greco dai rispettivi penitenziari: faranno dichiarazioni spontanee la prossima udienza, come anche Antonio Lerose.
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