REGGIO EMILIA – Eravamo un treno in corsa nel viaggio della vita, immersi nella globalizzazione. Poi è arrivato questo virus, giovane, nato nel 2019, che predilige malati e anziani, che si è infilato nelle nostre strette di mano e nei nostri abbracci, fermato i viaggi, chiuso le attività e alla fine ci ha blindato in casa mentre lui continua a scorrazzare per il mondo.
Ci ha reso diffidenti e paurosi, condannati in fila ma sopratutto ha condizionato e cambiato il nostro linguaggio. Abbiamo iniziato a risentire e a pronunciare parole come quarantena, anche se sono 15 giorni quelli necessari per debellare questa polmonite atipica capace di togliere il respiro fino alla morte. Ci ha insegnato il significato di lockdown, letteralmente il confinamento. Epidemia e pandemia ci hanno spiegato che Covid ha colpito ovunque ma in modo capriccioso, più in alcune zone che in altre.
Così abbiamo iniziato a seguire i tutorial, a partecipare alle conference call, a lavorare in smart working, a sentirci aggiornati con i webinar. Che per la maggior parte dei casi era stare in tuta davanti a un cellulare o un computer. Poi Il Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio, e a compilare le autocertificazioni, moderni lasciapassare per arrivare al supermercato e non essere sanzionati.
Ci ha tolto il sorriso, Covid, coprendoci il volto con la mascherina, costringendo a sanificare gli ambienti, a stare lontani e a imparare il distanziamento sociale. Abbiamo imparato a evitare l’assembramento. Con i bar e i ristoranti chiusi abbiamo sperimentato il delivery, abbiamo imparato a definire i nostri parenti stretti, i congiunti. Diventati esperti di tamponi e test sierologici, a discutere di Mes e di Corona Bond. Ci siamo detti e abbiamo scritto dai balconi
che #andràtuttobene, con la speranza che sia vero.