REGGIO EMILIA – Cinquantasei. Giorni, fogli di un libro di storia. Le immagini, quelle sono state molte di più. Come sono state di più le ore, negli ospedali. Come sono stati di più gli ammalati: “Di notte si è soli…la notte ci sei tu, tu e ancora tu”. Come sono stati di più gli uccisi dal virus, come sono stati di più i guariti: “Devo la vita a chi mi ha ridato alla mia famiglia”.
Noi fermi, a casa. A cantare sui balconi, o a pregare. Loro, i sanitari, senza sapere se fosse giorno o notte, con le tute dei campioni del calcio, a tenere una mano che moriva o a stringerne una che nasceva. A sperare di non dover arrivare a
prendere quelle decisioni: “A fine marzo abbiamo rischiato il default…avevamo pensato ad un ospedale da campo”.
La paura può bloccare, ma poi ci si guarda l’un l’altro. Ci si aiuta a vicenda. Si danno informazioni da luoghi virtuali e si affronta l’ignoto. “Ho visto occhi così persi, che chiedevano aiuto…spero ce l’abbia fatta”. Non ci si abbraccia, adesso. Ancora no. Ma si va avanti.
(montaggio del servizio di Raffaele Terenziani)
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