di Laura Torricelli*
REGGIO EMILIA – Vado a lavorare a piedi, la strada deserta, la mascherina sul viso e gli occhiali che si appannano. Mentre cammino verso l’ospedale un film silenzioso mi scorre nella mente. Rivedo i volti dei colleghi coperti dalle mascherine, sento le loro voci filtrate e stanche e soprattutto vedo i loro occhi eloquenti che sbucano come fari. Sono gli occhi di chi combatte in prima linea un nemico invisibile e veloce, occhi attraversati dalla paura e dal coraggio, occhi di chi non si risparmia, occhi che parlano ai pazienti oltre le parole.

Laura Torricelli, psicologa psicoterapeuta, coordina l’Equipe degli psicologi per l’emergenza dell’Ausl
Da quando ho iniziato il sostegno psicologico agli operatori sanitari incontro tante persone di cui non conosco i volti, ma solo gli occhi e le emozioni. Quegli occhi che mi guardano quando spiego che lavoreremo con una strana tecnica chiamata EMDR basata sulla stimolazione bilaterale alternata, una tecnica che non impedirà loro di sentire lo stress, ma che li aiuterà ad elaborare un po’ ciò che i loro occhi vedono ogni giorno. Si affidano, mi seguono e attraversano le emozioni più disturbanti, percorrendo un filo trasparente che ci unisce in un momento in cui la solitudine e la distanza sono all’ordine del giorno.
Attraverso via Benedetto Croce, le uniche auto in movimento sono carri funebri con bare senza fiori e senza nessuno al seguito per l’ultimo saluto. Eccola di nuovo la solitudine, assoluta protagonista di questa pandemia. E’ quasi palpabile, la si sente ovunque. E’ nella voce di chi a casa aspetta una chiamata dei medici, negli occhi del personale sanitario, nelle stanze dei pazienti, nei funerali non fatti.
Una grande risorsa nelle maxi-emergenze è poter fare rete, aiutarsi a vicenda, come è avvenuto con il terremoto, dove la vicinanza e la condivisione degli stessi spazi, il sentirsi vicini era un motore forte. Oggi questo è negato; attraversiamo un’emergenza globale, una minaccia che fino a ieri era la trama di un film di fantascienza, completamente da soli.
Il lavoro dello psicologo ai tempi dei COVID-19? Tessere fili trasparenti, legami, reti invisibili oltre la paura, le mascherine e i colloqui telefonici, oltre l’isolamento dei pazienti e i caschi per l’ossigeno.
Arrivo in ambulatorio, ci sono le mie colleghe. Eccoci qui: l’Equipe degli Psicologi per l’Emergenza. Il nostro briefing di inizio settimana. C’è tanto da fare: i gruppi di supporto per gli operatori e i volontari, dividerci le telefonate ai familiari, coordinarci con gli altri presidi e con i colleghi del Call Center, ed inoltre progettare il supporto psicologico per gli ex pazienti e familiari nel post emergenza sanitaria, perché nessuno deve essere lasciato solo, né ora né dopo.
Lavoriamo in squadra allo stesso ritmo, coese con tutti i reparti e gli altri servizi della mastodontica macchina sanitaria.
Oggi tessiamo un nuovo flebile filo, entriamo nelle camere dei pazienti ricoverati; abbiamo pensato di registrare un video da inviare loro, un video in cui diamo piccoli suggerimenti e tecniche per aiutarli ad attraversare la paura e l’ansia di non riuscire a respirare. Attraverso i loro telefoni potranno sapere che ci siamo, che non sono soli.
Un’altra giornata finita, le finestre dell’ospedale illuminate come tanti occhi. Occhi nei quali si muovono persone, vite, paure e speranze. Ne usciremo. Uniti da un filo trasparente, ne usciremo. Mi incammino verso casa, abbasso la mascherina e respiro profondamente.
(*psicologa psicoterapeuta,
Equipe degli psicologi per l’emergenza,
Ausl di Reggio Emilia)