REGGIO EMILIA – Sarai al Teatro San Prospero il 13 marzo prossimo, all’interno della rassegna “Festival Donne in Scena”. Sei artiste reggiane, sei linguaggi diversi, 6 occasioni al femminile per raccontarsi. Cosa ti ha portato a aderire a questa proposta?
“Quando Dina Buccino mi ha spiegato il concept del festival e mi ha proposto di farne parte ho accettato con gioia. Abito a Reggio da una decina di anni ma il mio percorso artistico non si è mai intrecciato, se non in alcune occasioni, alla vita culturale della città. La mia attività artistica si sviluppa in più direzioni, tra l’arte visiva, con il gruppo informale Jan Voxel, e l’arte performativa, con la Compagnia Pietribiasi/Tedeschi. Negli anni ho partecipato ad alcune edizioni di Circuito OFF di Fotografia Europea, all’evento Cross ai Chiostri di San Domenico, all’organizzazione delle passeggiate interculturali in vari quartieri della città. Ho anche collaborato attivamente con l’Associazione Via Roma Zero, nel quartiere Santa Croce, e ho realizzato un impegnativo progetto site-specific sulla comunità e il territorio dal titolo Viaroma #Memoriedelsuolo. È lì che ho conosciuto Dina, la sua realtà, sua figlia e i residenti del quartiere. Partecipare a questa rassegna che valorizza il lavoro delle artiste donne di Reggio Emilia mi inorgoglisce e mi fa sentire parte di una comunità”.
Padre d’amore, padre di fango: il titolo del lavoro di cui sei autrice e protagonista è forte. Indaga la relazione padre e figlia si immagina fuori da ogni retorica. È così?
“Assolutamente sì, odio la retorica. Lo spettacolo prende spunto dalla mia autobiografia per affrontare un pezzo di storia recente decisamente poco raccontato: la tossicodipendenza da eroina negli anni ’80. Un evento drammatico che ha coinvolto migliaia di giovani e ha decimato una generazione. Tra quei ragazzi c’erano anche i miei genitori che avevano 20 anni. Mentre l’eroina dilagava distruggendo famiglie, affetti e vite, la provincia veneta – da cui provengo – diventava la “locomotiva d’Italia”. Io sono nata in questa contraddizione. La gestazione dello spettacolo è stata lunga: quasi due anni tra lavoro di scrittura, lettura e revisione. Grazie ai consigli di Stefan Kaegi del collettivo svizzero Rimini Protokoll e le residenze artistiche realizzate a Zona K di Milano e al Teatro delle Donne di Firenze (realtà che ora mi produce), lo spettacolo ha debuttato nell’estate 2020 al Festival Kilowatt di Sansepolcro. Nel settembre 2021 lo spettacolo ha vinto il Primo Premio Voci dell’Anima Festival di Rimini e il Premio della Critica”.
Leggendo il tuo curriculum si può dire che concepisci l’arte come un percorso di condivisione, nella sua attuazione, anche con la cittadinanza; possono essere persone disabili, bambini, attori-utenti dei servizi di salute mentale. L’arte funziona, quindi, non quando c’è un produttore culturale da un lato e il pubblico dall’altro, ma quando la produzione culturale avviene in modo collettivo?
“Dire come l’arte funziona è davvero cosa ardua. L’arte funziona anche e soprattutto all’interno di un “sistema dell’arte” fatto di committente, pubblico, curatore, critico e altre figure specifiche come il gallerista e il collezionista. L’arte è espressione di un establishment, di un potere. È così ed è sempre stato così. Questo non significa che non esista un’arte diversa, che si fonda su altri paradigmi più democratici, più partecipativi. La mia attenzione alla comunità, ai territori, alle storie orali e a tutte le “marginalità” va in questa direzione. Ho dedicato oltre 10 anni del mio lavoro a “fare arte” con le persone disabili e i bambini, ma soprattutto con le persone seguite dai servizi di Salute Mentale. Il teatro fatto con loro, nei Centri Diurni e nelle REMS, è un teatro mai scontato dove mi è capitato di vedere, a dispetto dei migliori palcoscenici e delle migliori compagnie, quell’autenticità che commuove”.
Si parla tanto di innovazione, compresa l’innovazione sociale. Mi pare che per fare innovazione sociale, la cultura sia perfetta perché ha a che fare con la produzione di significato, crea senso di appartenenza e favorisce la partecipazione. A tuo parere potrebbe essere un veicolo anche per la partecipazione civica, al fine di riappassionare alla politica?
“Per parlare di partecipazione, politica e arte faccio un accenno ad un’esperienza che ho fatto recentemente: ho insegnato, come supplente, Arte e Immagine alle scuole medie. A scuola, il luogo dove si forma la coscienza politica e l’interesse per la partecipazione, la collettività e il bene comune, si studia Arte solamente 2 ore a settimana. Spesso la materia è relegata tra quelle secondarie e poco importanti. La si studia solo per tre anni, poi per molti studenti l’esperienza finisce lì. Non possiamo stupirci se mancano le “passioni” (per la politica, per l’arte, per la cultura)!
Passione deriva da “patire, soffrire”. L’arte è un ricercare sofferto. Ho sempre creduto che l’arte non sia una scelta di comodo. Essere artisti è una scelta che comporta delle responsabilità. Se vogliamo riappassionarci alla politica, dobbiamo prima di tutto provare passioni”.
Sei una ragazza nata a 10 anni e oltre dal 1968: che cosa senti contemporaneo rispetto alle rivendicazioni e alle lotte del femminismo?
“È molto complesso rispondere a questa domanda. Le istanze del femminismo sono ancora pienamente valide. La mia condizione di donna è di certo migliorata rispetto a quella di mia nonna che aveva vent’anni negli anni ’50. Io ho potuto decidere della mia vita, lei no. Io ho potuto non arrendermi al milieu sociale e culturale in cui sono nata e ho potuto sognare una vita diversa. Ho potuto scegliere cosa diventare, ho potuto studiare, prendere due lauree ed un master, ho potuto autodeterminarmi come artista. E tutto questo grazie alle lotte del femminismo”.
Infine, tu che sei donna di parola, il teatro ne fa uso come veicolo fondamentale, cosa pensi dell’uso sessuato del linguaggio, come veicolo fondamentale per far emergere l’esistenza del femminile?
“A livello teorico sono assolutamente d’accordo di prestare attenzione a tutt* quell* che non si riconoscono nel binomio uomo-donna e approvo tutti gli sforzi concettuali fatti per individuare le desinenze gender fluid. A livello pratico, sono sincera, non mi esprimo con la schwa (preferisco l’asterisco che mi da di più il senso dell’inaspettato). Il linguaggio sessuato e gender fluid è necessario per scalfire un pò questo paradigma maschiocentrico in cui siamo secolarmente immers*. Il nostro presente non è più univoco: dobbiamo tenere conto della complessità”.
Natalia Maramotti
Chi è Cinzia Pietribiasi
Nata a Vicenza nel 1979, vive a Reggio Emilia. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in Conservazione dei Beni Culturali con 110 e lode, si è diplomata con lode al secondo livello AFAM in Nuove Tecnologie dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Ora è Junior Scientist presso l’Accademia di Belle Arti di Roma.
Il teatro è stato un amore incondizionato e totale per molti anni. Ma la sua ricerca ora ruota attorno alle nuove tecnologie applicate all’analisi e alla cattura del movimento, all’interazione uomo-macchina, alla digital performance, alla creazione di ambienti immersivi e “sensibili” attraverso opere di realtà virtuale e aumentata. Con lo pseudonimo Jan Voxel, crea opere di grafica generativa (The Critters Room, vincitore del bando Residenze Digitali promosso dal Centro di Residenze della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt).
È stata performer in “Huddle” e “Censor” (2020), nella riesecuzione delle performance di Simone Forti, Fondazione ICA di Milano; responsabile del dispositivo performativo e workshop trainer nel progetto “The Prague Experiment” che ha vinto l’Award for Imagination all’edizione 2019 della Quadriennale di Scenografia di Praga. Nel 2012 il suo assolo di danza IO SONO QUI è tra i semifinalisti di Premio Gd’A Emilia Romagna.
Nel 2012 a Reggio Emilia fonda con Pierluigi Tedeschi (scrittore, drammaturgo e performer) la Compagnia Pietribiasi/Tedeschi, per la quale è regista e performer. Le produzioni della compagnia spaziano dalla videoinstallazione e il teatro multimediale al teatro civile, dal teatro-danza ai concept album musicali, dal teatro dell’infanzia ai reading. Si ricorda in particolare: il progetto pluriennale di rigenerazione urbana #MEMORIEDELSUOLO (2015-21), vincitore della seconda edizione del Premio Letterario Nazionale Raffaele Crovi per la Letteratura d’Appennino. PUNTO TRIPLO (2015) vincitore di una coproduzione di Campania dei Festival e ha debuttato al Fringe di Napoli, BIOS (2014) vincitore del “Premio Cortazar e i nostri giorni” di Teatro Nucleo di Pontelagoscuro (FE), presentato al WAM Festival di Faenza, FREEZE (2013) presentato al Festival IPERCORPO di Forlì e ad ALTOFEST di Napoli.