REGGIO EMILIA – “Era un uomo molto schivo, sobrio, amava ascoltare più che interloquire, il suo ruolo politico e la sua vita privata difficilmente si incrociavano. Mentre con altri leader del Pci ho avuito modo di intrattenere anche rapporti personali e di finire in osteria, con Berlinguer la cosa era più complessa”. Sono le parole di Antonio Bernardi che nel 1973, a 32 anni, fu eletto a capo della federazione comunista reggiana. Enrico Berlinguer era da un anno segretario generale del Pci. Nei sei anni da segretario provinciale e poi negli 8 da deputato, Bernardi ha conosciuto da vicino il leader comunista.
Un continuatore della strategia togliattiana, dice oggi, ma anche un grande innovatore, tanto da spingere l’autonomia del Pci dall’Unione Sovietica ai limiti del punto di rottura. E capace di rappresentare un punto di riferimento credibile agli occhi di un’Italia che stava cambiando. Il dialogo con la Dc di Aldo Moro non piaceva nè a Mosca nè a Whashington. Poi le cose andarono a finire come si sa. “Moro fu vittima del terrorismo – racconta -, Berlinguer secondo una narrazione che Emanuele Macaluso mi fece più volte e su cui scrisse un libro, rischiò un attentato in Bulgaria.”
Ma a quasi 40 anni dalla morte nel 1984, dove sta l’eredità di Berlinguer? La risposta dell’ex segretario provinciale del Pci è in parte sorprendente. “Posso ritrovare la sensibilità di quella levatura in personaggi come il cardinale Zuppi, tra i politici non saprei. Uomini come Berlinguer e Moro sono espressione di una cultura, di una tradizione, di un clima che oggi non c’è più”.
Gabriele Franzini Decoder Enrico Berlinguer Antonio Bernardi











