REGGIO EMILIA – La sentenza della Cassazione mette il sigillo ad un lavoro investigativo cominciato nel 2012 e a due processi che si sono sviluppati su tre gradi di giudizio. Le sentenze hanno stabilito che in Emilia esiste una cosca di ‘ndrangheta con epicentro a Reggio, legata alla cosca Grande Aracri di Cutro ma dotata di autonomia decisionale e operativa. Le indagini hanno individuato i capi, le seconde file, i soldati semplici e i complici, hanno documentato i reati, hanno ricostruito i rapporti con esponenti dell’economia, delle professioni, della politica e delle forze dell’ordine. Una sessantina di condanne nel processo con rito abbreviato a Bologna, 93 in quello celebrato con rito ordinario in primo grado a Reggio e in appello a Bologna. Ci sono state anche le assoluzioni, come è giusto e normale che sia: 11 nel rito abbreviato, 27 nell’ordinario. Ma nel complesso le sentenze hanno confermato tutto: nomi, fatti e circostanze.
E’ una vittoria dello Stato contro la criminalità organizzata, del diritto contro l’illegalità, delle persone perbene contro i mafiosi. E’ una vittoria dell’ex procuratore di Bologna Roberto Alfonso, che coordinò l’indagine. E’ una vittoria dell’attuale procuratrice reggente di Bologna Lucia Musti, che rappresentò la pubblica accusa nel processo di appello e in quello contro Gianluigi Sarcone. E’ una vittoria di Beatrice Ronchi, della Direzione distrettuale antimafia di Bologna. Perché l’indagine Aemilia non è piovuta dal cielo, non si è fatta da sola, non è uno scritto anonimo. E dunque quest’ultima sentenza è anche e soprattutto una vittoria di Marco Mescolini, il principale artefice di questa inchiesta, che – attaccato prima dalla destra e poi da alcuni sostituti procuratori – è stato infine cacciato dall’Emilia-Romagna.
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